di Luca Brancher
Non è facile scrivere di una promessa che ormai ha perso ogni possibilità di essere definita tale, vuoi per l’età, vuoi per i risultati ad ora conseguiti, perché la tentazione di farsi inghiottire nelle viscere dei luoghi comuni affascina e obnubila ogni altra forma di pensiero. D’altro canto l’idea del tennista talentuoso ma folle è quella che più facilmente ammalia lo spettatore medio, perché siamo tutti cresciuti col mito dell’eroe, che non è un super-uomo a cui tutto è possibile, bensì una persona apparentemente comune che riesce ad innalzarsi al di sopra della media. Insomma, il giocatore vincente ci piace, ma se ci mostra qualche debolezza lo amiamo di più: per cui, ben vengano i campioni “con la macchia”, ben vengano. Nel caso in questione, quello del russo Evgeny Donskoy, non stiamo a dire il vero parlando di un giocatore destinato, in tenera età, a diventare un campione assoluto, per quanto, le sue prime apparizioni ci avevano lasciato intendere che qualcosa, da dire ai grandi, l’avesse eccome. Tra un mese di anni ne compirà 26, un’età che, nonostante l’invecchiamento generale della top-100, non ci permette di classificarlo appunto come promessa.
Matto, però, il ragazzo moscovita assolutamente non lo è: quando parla del suo tennis, della sua carriera, del suo essere giocatore, lo fa sempre in maniera piuttosto lucida, e non dimentica di ricordare come il suo approccio con questo sport sia stato tutto meno che pianificato. La sua grande passione, così come per l’altro giovane russo che si è messo in particolare luce in questo 2016, Andrey Kuznetsov, era la musica. Correva l’anno 1996, la Russia scopriva il suo amore per il tennis, sia per volontà dell’allora presidente Boris Eltsin, sia per la vittoria a Parigi del principino di Sochi Evgeny Kafelnikov, ma il giovane omonimo del campione del Roland Garros era ben lontano da tutti questi argomenti, a lui interessava il pianoforte, e le lezioni private che un maestro regolarmente gli impartiva. Aveva talento il giovane Donskoy, per cui non è facile evincere il motivo per cui l’insegnante lo abbia in un certo senso incuriosito raccontandogli che, lì vicino, stava per aprire un nuovo circolo tennis, per cui, se avesse voluto, avrebbe potuto prendere qualche lezione. Tennis? What? Evgeny aveva soltanto 6 anni, ancora non sapeva che il pianoforte sarebbe diventato, di lì a poco, il suo secondo strumento preferito. Il primo sarebbe stata la racchetta.
Economicamente, gli sforzi dei Donskoy sono stati ingenti, il ragazzo, fino ai 16 anni, quando un ricco sponsor è giunto a lui in soccorso nel momento stesso in cui intraprese la sua prima esperienza oltre confine, per la precisione a Vienna, non era certo di poter disporre dei mezzi per diventare un professionista a tutti gli effetti, ovvero ad ambire a stare in un circuito che impone viaggi e spese accessorie e rilevanti per 11 mesi l’anno. Dopo l’Austria è stata la volta della Spagna, all’Accademia di David Sanchez e Gonzalo Lopez, dove Evgeny ha potuto rendere il suo repertorio più poliedrico, capace di non subire un deterioramento del livello di gioco a seconda della superficie, per quanto queste abbiano teso ad assomigliarsi sempre più. Se le prime notizie di una certa e possibile futuribilità sono giunte ben oltre i 21 anni, lo si deve ad un atteggiamento e ad una scelta di programmazione che hanno evitato che passasse troppo tempo nel circuito ITF, dove magari avrebbe potuto conquistare qualche punto in più da subito, ma si mettesse alla prova nelle manifestazioni superiori. E quindi, inizialmente, erano sconfitte, quelle che spesso vengono vendute come esperienza, ma che in questo caso hanno assolutamente avuto quel ruolo, perché gli hanno permesso di crescere, almeno fino a raggiungere il primo step nella carriera di un giocatore di altro rango, ovvero i top-100, a non ancora 22 anni.
Qualcosa, però, qui si è inceppato. Donskoy è un tennista molto gradevole, ma, quando è stato chiamato a mostrare di quale pasta fosse fatto e che le sue ambizioni andassero oltre il banale copione della vittima sacrificale sull’altare dei giocatori che classifica alla mano erano più forti e completi di lui, ha steccato. Nel match, ad oggi, disputato contro il tennista più in alto in classifica, ovvero Andy Murray, ad Indian Wells, tre stagioni fa, il russo ha giocato in maniera sontuosa all’inizio, perdendo e poi rivincendo una prima frazione per 7-5, dopo essere stato avanti 5-1, ma finendo col farsi superare nei successivi due parziali. Nulla di trascendentale o scandaloso, normale, quando affronti per la prima volta un big di categoria, semmai il problema è che Donskoy, ad oggi, quando le primavere sono 25 inoltrate, di incontri così ne ha giocati pochi. Ed è un difetto non da poco, perché sono importanti per migliorare, ed è arduo ambire a farlo quando in generale giochi raramente contro un top-ten. Perché questo? Perché se da giovane si imponeva di disputare tornei di caratura superiore al suo livello di gioco di allora, il suo ragionamento diventato un top-100 è stato esattamente il contrario, ovvero ha preferito, quando possibile, scendere di categoria e giocare qualche Challenger, non raccogliendo però risultati di pari dignità a quelli che lo avevano introdotto tra i migliori 100 del globo. Il risultato, scontato, era perdere lo status acquisito, finendo a dibattere nel circuito secondario non per scelta, ma per necessità, estrema necessità.
Ad aiutarlo, nell’uscire dalle sabbie mobili di una classifica che può diventare impervia come una montagna di un tappone dolomitico, è giunta una vecchia conoscenza del tennis russo, ovvero Boris Sobkin, il padre putativo di Mikhail Youzhny, che, così come fatto col suo pupillo, lo ha preso per mano e gli ha indicato la retta via. Il suo miglior risultato in un torneo ATP – il quarto ad Hertogenbosch nel 2013 – è stato migliorato lo scorso autunno con la semifinale nel torneo di Mosca, quello Slam, il terzo turno dell’Australian Open, sempre nell’anno di grazia 2013, non è stato ancora eguagliato, sebbene a Melbourne ci sia andato molto vicino: “Ho avuto un set point nel terzo parziale, sull’1-1, e poi ho vinto il quarto, contro Gilles Simon al secondo turno, ma ho ceduto al quinto.” Segnale che la strada è quella buona, sebbene manchi ancora qualcosa.
Con la vittoria della scorsa settimana nel Challenger israeliano di Raanana, Evgeny Donskoy ha toccato la posizione numero 67 della graduatoria ATP, a sole due tacche da quel best ranking vecchio di quasi tre anni. Pare destinato a superarsi, anche se è necessario fare un importante distinguo: se dovessimo valutare il Donskoy di oggi, potremmo valutarlo come un tennista più competitivo di quello che è stato, ed è lui stesso ad ammetterlo: “Non ci si può esimere, parlando del mio gioco, dal fare un discorso sui risultati e uno sulle prestazioni. Sto giocando il mio miglior tennis, ma purtroppo non ho sfruttato alcune occasioni: a Chennai con Millman ho perso 8-6 al tie del terzo, a Melbourne ho lottato cinque set con Gilles Simon, a Rotterdam ho avuto alcuni match point contro Chardy, tutti avversari di valore.” Questione quindi di occasioni. “Sono certo di aver fatto la scelta corretta con Sobkin, sono tornato nei 100 grazie a lui, ed è lui la persona che può aiutarmi a salire ancora.”
Il futuro saprà svelarci quale fosse il destino di Evgeny Donskoy, e quanto sarebbe potuto migliorare, magari riservandoci qualche sorpresa, così come il nome lascerebbe intendere. Nel 1988, a Rostov, tale Elena Kovaleva, tornando a casa, trovò una gatta e decise di prenderla con sé per curarla, perché gli sembrava piuttosto malaticcia. O almeno, lo aveva dedotto dal fatto che fosse senza pelo, ma ogni cura contro la dermatite non sortiva alcun effetto, dal cui dedusse che si trattava di un carattere genetico. Un anno più tardi, quando ormai la gatta aveva procreato, Elena conobbe, ad un matrimonio, Irina Nemykina, che adottò uno di questi cuccioli per testare e comprendere a cosa ci trovassimo di fronte: fu così che scoprì come, differentemente da tutte le altre razze di gatto prive di peli, questa era dominante, per cui si poteva trarre la conclusione che un nuovo tipo di felino era stato scoperto, che fu chiamata appunto, essendo la città di Rostov sul fiume Don, Donskoy. Come il nostro eroe, la nostra possibile promessa non più considerabile tale, che però, così come quella povera gatta trovata per strada, potrebbe aver scoperto, tardi, di essere un giocatore dominante. Grazie a Sobkin.
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