di Emanuele De Vita
“Nel futuro ognuno sarà famoso nel mondo per 15 minuti.” La celebre frase di Andy Warhol è da sempre foriera di numerosi spunti interpretativi in ogni ambito. Quando un giorno di fine settembre al challenger di Posillipo vidi giocare un ragazzo francese di Avignone dal tennis strabiliante, e assistetti a una sua incredibile sconfitta nel tie-break decisivo contro Marco Crugnola, pensai: “Questo qui diventerà famoso anche per più di 15 minuti.” Il nome di quel tennista francese dal talento impressionante è Benoit Paire. E d’altronde non può essere etichettato come un tipo normale uno che ha rilasciato un’intervista nella quale ha asserito: “Se devo affrontare uno scambio col solo intento di mettere la palla in gioco, mi annoierei, non ce la farei proprio. Noi giochiamo a tennis per divertirci, quindi voglio provare cose nuove. La gente penserà che io sia pazzo, ma la mia filosofia è, che se devo giocare un punto, provo a fare in modo che sia memorabile.”
Nel circuito monotematico di oggi, sempre più prigioniero di muscoli, atletismo e fisicità, abbiamo bisogno di credere che la bellezza del tennis di Benoit salverà il mondo. L’imprevedibilità e la follia stuzzicante del genio del francese di Avignone e di poche altre eccezioni nel circuito (Dolgopolov, Youzhny, Florian Mayer e pochi altri) sono le uniche armi per contrastare la noia del tennis muscolare degli interpreti d’elite di questi anni. Così come non ci hanno lasciato indifferenti pellicole come “Sleep” e “Empire” di Andy Warhol, che partendo da una camera fissa, mostravano azioni dilatate del tempo, film minimali che creavano l’immagine partendo da un unico punto di vista, così anche i match di Benoit Paire ci fanno provare sempre delle emozioni, perché c’immedesimiamo nella soggettiva della geniale follia del francese. Oltre al match di Posillipo contro Crugnola, ricordo la sua prima vittoria in un tabellone principale di uno Slam quando agli US Open sconfisse il cagnaccio tedesco Rainer Schuettler dopo aver recuperato uno svantaggio di 5-2 nel parziale decisivo per poi batterlo nel tie-break finale. Ma ci sono tanti altri esempi di grandi match, come una partita divertentissima e spettacolare giocata contro Ivan Ljubicic a Rotterdam, nel quale l’esperto ex tennista croato si fermò a ridere in occasione di un ultimo game del genio di Avignone giocato sfoderando solo numeri con lob sotto le gambe e smorzate a ogni punto.
E potrei citare anche l’incredibile cavalcata al torneo del foro italico dello scorso anno quando si arrese solamente a Roger Federer in semifinale, ma ciò che rimane dentro dei match di Benoit, vinti o persi che siano, è l’atteggiamento spavaldo e senza nessun tipo di vincolo tattico che mostra in campo, dando sfoggio del suo abbacinante talento in ogni occasione. I suoi match sono una riproduzione costante di tutti i colpi magici del suo repertorio, dal suo magnifico rovescio, giocato da tutte le posizioni del campo, alle smorzate millimetriche, passando per discese a rete in controtempo e volèe spettacolari. Come Andy Warhol aveva fatto della ripetizione il suo metodo di successo, riproducendo su enormi tele moltissime volte la stessa immagine alterandone solo i colori, e privilegiando soprattutto quelli vivaci e forti, così Benoit colora ogni suo match, provando tutte queste giocate che compongono il suo ricchissimo repertorio e che lo differenziano in maniera così netta dagli altri tennisti, contribuendolo a renderlo unico, insieme anche alle reazioni sopra le righe a cui va spesso incontro con una sequenzialità quasi matematica, e che ha sempre dovuto fronteggiare, fin dall’inizio della sua non facile carriera, ostacolata da un carattere fin troppo autolesionista. Troppo spesso vittima delle sue stesse ansie e paure, sprecò la grande occasione della sua vita, quando ebbe la possibilità di ricevere gli insegnamenti di una personale “Factory” all’accademia francese, ma insofferente a ogni tipo di schema, ruppe con il suo primo allenatore Jerome Potier. Dopo un perieodo di crisi, moltissime racchette dilaniate e il silenzio assordante della federazione francese, la carriera di Paire è ripartita grazie all’aiuto dell’ex coach di Fabrice Santoro, cioè Lionel Zimbler, un allenatore che è sull’orlo della crisi di nervi ogni volta che scende in campo il suo assistito, ma che ha il privilegio di godere da vicino dell’immenso talento del “Safin di Avignone”, con l’arduo compito di incanalarlo sui binari giusti. “E’ meglio vedere un film che un incontro di tennis perché non sopporto di vedere qualcuno che potrebbe perdere” diceva Andy Warhol, e mi piace pensare che Benoit Paire, l’atipico, non faccia sua questa citazione, perché tra la vittoria e la sconfitta, scorre un così labile rapporto, che per uno come lui non fa alcuna differenza.