Per inquadrare un personaggio a volte basta davvero poco. Nel caso di Michael Russell, ad esempio, è sufficiente un tweet dell’organizzazione del torneo di Memphis: “Russell è uno dei pochissimi giocatori che ringraziano i raccattapalle dopo ogni singolo punto. La classe all’opera”.
Ecco, Russell è così: se fai cose del genere è perché lo ritieni intimamente normale e giusto, mentre se pensi che ringraziare i ragazzini che ti passano la palla sia inutile e non dovuto, difficilmente lo fai per fare bella figura. Troppi punti, troppi ringraziamenti, troppo incomodo. Non c’è da sorprendersi in fondo, visto che si parla di un tennista a tutti gli effetti d’altri tempi: uno che ha 36 anni suonatissimi e metà li ha spesi sfangandosela tra Futures e Challenger con qualche rara ma produttiva puntata nei tornei maggiori.
Best ranking fermo al 60, dodici challenger in bacheca (il primo vinto contro Pescosolido!), ottavi al Roland Garros e ad Indian Wells (battendo Berdych) e la peculiarità di non essere riuscito a vincere una gara agli Us Open in ben otto tentativi, Russell come tanti tennisti di lungo corso ha tenuto a battesimo futuri campioni in transito nei tornei minori. Tanto per dire, ha fatto fuori un Roddick poco più che ragazzino, lo ha visto diventare numero uno al mondo e poi ritirarsi, e lui è ancora lì a tirare pallate. Nessuna finale maggiore, solo una semifinale a Houston dove non è che l’abbiano trattato troppo bene. Ma ci arriveremo.
Avere quasi 37 anni non significa essere vecchi nella vita, ma nel tennis significa essere più che stagionati. Un’età nella quale tanti uomini smettono di correre appresso alle ragazzine e tantissimi tennisti hanno smesso da tempo di correre appresso a ragazzini che hanno la metà dei loro anni e il doppio della loro potenza. Sarà per questo che Russell, capendo ormai di essere più fuori tempo delle canotte che sfoggia in campo, ha annunciato che questo sarà il suo ultimo anno nel tour. Fino ad ora, c’è da dire, non è stata una grande stagione e non certo per colpa sua, visto che ha stoicamente conquistato il main draw degli Australian Open ancora una volta, strappando persino un set a Goffin.
Tutto comincia dopo gli AO, a Maui, incantevole atollo hawaiano che ospita un torneo Challenger. Russell, all’epoca ancora numero 9 americano, si presenta per giocare. Visto che lì i soldi certo non mancano, ti aspetteresti un’organizzazione perfetta e consona alla celebre ospitalità del posto, con tanto di collane di fiori. Invece Russell si trova a giocare in un campo che sembra terremotato: spaccature nel cemento, una riga letteralmente divisa in due, rischio di avvallamenti. E lui sbotta, perché sarà anche buono e caro ma ogni tanto gli parte anche a lui. Mette le foto online e twitta “Come si fa ad approvare un torneo con questi campi? Sarebbe meglio giocare in un parcheggio”.
Qualche malpensante mormora che è una mezza rosicata, ma non convince. Un campo così non avvantaggia uno dei giocatori, ma svantaggia entrambi: e se una caviglia salta a Russell magari il movimento americano non ne risente, ma se fosse saltata al baby-fenomeno Kozlov, 17 anni e sulle spalle già il peso del futuro di un tennis in crisi, cosa sarebbe successo?
Passano un paio di mesi e Russell, nativo di Detroit ma residente da tempo a Houston, manda una mail al direttore del torneo di casa chiedendo una wild card. Intendiamoci, lui non è uno di quelli che ricevono inviti a strafottere: anzi, a dire il vero, non li riceve praticamente mai. Van Barry, direttore del torneo e capintesta dell’USTA Texas, si trova, va detto, in una situazione spinosa: ha già sulla scrivania le richieste di Hewitt, ex numero uno, e Tipsarevic al rientro. Si aggiunge in extremis quella di Feliciano Lopez, che così verrebbe ad essere la nuova testa di serie numero 1. Che fare?
Al suo posto, va detto, anche io non avrei concesso la wild card: se dirigi un torneo hai delle responsabilità verso tutto l’apparato organizzativo. Probabilmente avrei chiamato Russell e gli avrei detto “Tesoro caro, mettiti nei miei panni, proprio non posso: è l’anno sbagliato. Qualunque cosa succeda durante le qualificazioni, però, saremmo lieti di organizzare una cerimonia speciale in tuo onore”.
Ecco, il problema è che Van Barry non ha neanche alzato il telefono, provocando un altro sfogo di Russell, sempre su Twitter: “Ultimo anno nel tour e nessuna wild card nel torneo di casa. Il direttore del torneo non ha nemmeno risposto alle mie mail. Patetico. Non c’è lealtà”.
E già, Michael, non c’è. Non è dato sapere se ci fossero screzi o cos’altro alle spalle di tutto ciò, ma se non dare la wild card è una scelta commerciale, non rispondere nemmeno è puro squallore o, nel caso le mail non fossero neanche state lette, pura incompetenza. Chissà se qualcuno si ricorderà di lui agli Us Open, torneo famoso per avere distribuito in passato decine di wild card a muzzo.
Oggi Russell ha perso al terzo l’ultimo turno delle qualificazioni per il Challenger di Sarasota contro Dutra Silva. Ha vinto il primo set, è stato avanti di un break sia nel secondo che nel terzo ma alla fine ha ceduto. A vederlo lottare e sbuffare in campo non ho potuto fare a meno di pensare “Ma chi cazzo te lo fa fare, Michè?”.
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