di Luca Brancher
Carriere che s’incrociano in punti apparentemente innocui di una stagione, di tennisti che si apprestano a disputare un incontro in cui si presentano differentemente da come ne usciranno, a prescindere dalle conseguenze immediate. E non è un discorso di grandi match, che giocoforza fungono da turning point, ci riferiamo ad incontri che, quasi pleonastici all’interno della carriera dello stesso giocatore, assumono a posteriori significati ben differenti, una sorta di campanello d’allarme non considerato. Sono incontri che, se non si fossero disputati, faremmo fatica solo ad immaginare. Eppure accadono, improvvisamente, e bisogna essere attenti a carpirli.
Strasburgo è stata a lungo la residenza di Jean Cauvin, a noi noto come Giovanni Calvino, Strasburgo è la sede del Parlamento Europeo, ma Strasburgo risulta anche come luogo di nascita di Paul Henri Mathieu, un ragazzo di ormai 32 primavere che si tiene a galla in un mondo del tennis che lo vorrebbe soltanto ricordare per un match di Coppa Davis perso ormai 12 anni fa. Etichettare e incasellare le persone è uno degli esercizi che meglio riesce a coloro che sono privi di fantasia, ma così procedendo si perdono quelle sfumature che danno maggior valore alla vita, non solo degli sportivi. Da quella serata parigina la carriera di Paulo è ripartita, ha avuto dei picchi di valore assoluto – chiedere a Nadal e al secondo degli n Roland Garros vinti – toccando una dodicesima posizione mondiale che lascia intendere quale sia stato l’alto potenziale in dotazione dell’alsaziano. Ha forse vinto poco, ma, come tutte le persone dotate di scarsa autostima, le sue vittorie sono arrivate a coppie, come se un’ondata di entusiasmo fosse condizione necessaria per raggiungere l’agognato trofeo. Nella doppietta datata 2007, quella che ha permesso il conseguimento del suo best ranking, le piazze conquistate sono state Casablanca e Gstaad, palcoscenici così differenti da Mosca e Lione, gli scenari dei suoi successi del lustro precedente. Paulo stava giocando abbastanza bene in quella stagione, anche di più, ma c’era chi poteva guardare i suoi risultati con un sorrisino sarcastico, dal momento che era andato ben oltre lo scibile e comprensibile umano.
Da Strasburgo passiamo a Buenos Aires, ma la distanza tra questi due personaggi non è meramente geografica, c’è qualcosa di più, ovvero la percezione che i tifosi detengono di loro. Se Mathieu è una sorta di Paperino del tennis, il giocatore eternamente sfortunato che per colpe non sempre a lui imputabili ha colto meno di quanto avrebbe potuto – chi di noi, avvicinandosi all’universo Disney, tra lui e Gastone non si è sentito più vicino ed attratto dalle sorti del cugino meno baciato dalla fortuna? – Guillermo Willy Canas non è più riuscito a togliersi di dosso quell’odioso alone che il doping ti lascia impresso. Scevro da ogni condizionamento legato a questa vicenda – e con questo non è che voglia difenderlo, vorrei semplicemente passare oltre – è innegabile che l’argentino non sia mai stato amato, in maniera particolare nell’ultima parte della sua carriera. Willy, però, nel 2007 ha colto una doppietta che all’epoca era impensabile per qualsiasi essere “racchettante”, ad eccezione, probabilmente, di Rafa Nadal sulla terra battuta, sconfiggere back-to-back Roger Federer nei due Master 1000 primaverili, prima in maniera piuttosto secca ad Indian Wells, poi all’ultimo respiro a Miami: l’argentino era rientrato sul circuito soltanto nell’autunno precedente, dopo una lunga squalifica per doping comminatagli nel corso del 2005. I video sul suo rientro sono di grande impatto, giocava nei consueti challenger sudamericani di metà autunno, talvolta su campi secondari, ed i suoi avversari apparivano come vittime sacrificali che venivano disarmate già al momento del sorteggio. Da lì alla California e alla Florida il passo è stato molto più breve e rapido del previsto.
Nell’agosto del 2007 Canas e Mathieu si trovarono l’unico contro l’altro, all’esordio della Rogers Cup, un sorteggio non banale, sempre nell’ottica del “ricordiamo quello che vogliamo”, dal momento che quello che all’epoca risultava come unico precedente era una partita sanguinosa risalente al Roland Garros di due anni prima. Un incontro che il transalpino, a distanza di un biennio, mostrava di non avere per nulla scordato, anzi, all’indomani della sua eliminazione nell’edizione dell’Open francese di quell’anno – perpetrata per mano del russo Igor Andreev – a cui era giunto con grandissime aspettative, Paulo aveva stigmatizzato la sua sconfitta, peraltro piuttosto netta, rendendo i meriti al suo avversario e ricordando che non erano quelle le partite che facevano male, come invece era accaduto due anni prima: quella sì, ancora faticava a dimenticarla. Cos’era successo? L’edizione del Roland Garros del 2005 rimarrà nella storia per essere stata la prima conquistata da Rafa Nadal, che sarebbe andato a sedersi su un trono che Gaston Gaudio, detentore, avrebbe liberato al termine di un match rocambolesco negli ottavi di finale contro David Ferrer – avanti 4-0 nel quinto set, non avrebbe fatto più un gioco. Le dichiarazioni piuttosto bizzarre dell’argentino dopo la sconfitta fecero da contraltare rispetto a quelle del povero Mathieu, risalenti al giorno prima, quando a stento riusciva a trattenere le lacrime dopo l’occasione d’oro sprecata contro Willy. Sotto di due set, il francese aveva cominciato a giocare una partita di grande sostanza, disegnata da un rovescio lungolinea che inesorabilmente metteva alle corde il suo avversario. Recuperati i due set di svantaggio, l’alsaziano si era presentato a servire per ottenere l’accesso agli ottavi di finale, prima di capitolare tra le lacrime sue e dei suoi tifosi. Un ricordo che ancora non aveva cancellato.
Non che un campo secondario della Rogers Cup possa equivalere, per un atleta francese, alla struttura di Bois de Boulogne, quantunque si giochi a Montreal, città francofona del Canada per definizione, ma qualcosa, nell’aria, Paulo, deve respirare se è vero che nel 2003 ottenne la sua prima vittoria in sede di Masters 1000, e nel 2005 rilanciò con una semifinale, tuttora il suo miglior risultato a questo livello, culminata con un’altra grande partita contro Rafa Nadal – la sua carriera pare essere stata scandita da grandi sfide contro il mallorquino, tutte comunque perse. Quanto si augurava, all’epoca, era che tutte le sue partite contro Guillermo Canas non avessero risvolti drammatici come quella maledetta prima volta.
A Montreal, ad agosto, fa parecchio caldo. L’incontro è programmato attorno all’ora di pranzo locale, non ho modo di seguirla. Glisso: non è, in quei frangenti, il primo pensiero che mi sovviene, però ne sono interessato. All’interno di quel campo accadrà qualcosa d’insospettabile, inaudito, quasi irrispettoso, nei confronti della tradizione tennistica di quei giorni. E non solo. L’argentino, che in Canada, ma a Toronto, ha ottenuto il successo più insperato della sua controversa carriera, domina, chiude il primo set 6-4, senza grossi patemi, e nel secondo vola avanti, sul 4-0. E se per David Foster Wallace esistevano i Federer moments, chi ha potuto assistere a quell’incontro dirà di aver assistito ad un Mathieu moment, con il francese che comincia a scherzare l’argentino, lo rimonta e lo schianta. Un parziale di tredici giochi ad uno che è più clamoroso di quanto qualsiasi altro 13-1 nello storia dello sport possa mai esserlo stato. Mathieu troverà una sicurezza che gli darà la possibilità di avvicinare la top-10 e ritoccare il best-ranking fino alla dodicesima posizione già citata, mentre Canas, che sembrava destinato a rientrarci, subirà lo scossone a tal punto che, d’un tratto, la nomea che si era costruito nei mesi precedenti andrà sgretolandosi. Pian piano si ridimensionerà, diventerà più battibile, e la sua deriva culminerà due anni più tardi, quando annuncerà il suo ritiro dalle scene internazionali, a 32 anni.
Paulo, invece, ancora oggi non ha abbandonato il circuito, arranca, ma la sua presenza è sempre viva. Il mese scorso, a cinque anni dall’ultima volta, stava per qualificarsi per una finale di un torneo ATP, ma, a Metz, più che Joao Sousa, a fermarlo fu quell’insicurezza che in tante occasioni gli aveva fatto visita. La sua fedele compagna sul circuito. Non basta un sussulto, un momento, una manata irrispettosa per cambiare il destino di una carriera, o di una vita. Ma la sensazione che quel giorno, a Montreal, qualcosa d’insperato si sia concretizzato rimane vivida nella mia testa, qualcosa che ha rotto un equilibrio prestabilito, per un lasso temporale forse troppo limitato. Paulo, l’uomo capace di buttare un titolo ATP dal match-point a favore, inanellando una serie di 12 punti persi consecutivamente (Palermo 2003), conosce il destino che lo accompagna, ma non per questo ha smesso di lottare. Quel giorno ha saputo reagire, mandando fuori giri il prototipo di giocatore che pare avulso da ogni possibile incantesimo mentale, eppure ce l’ha fatta, quella volta come poche altre, perché rimane pur sempre Paul Henri Mathieu, tennista che ha lottato, pianto, e, saltuariamente, ha saputo alzare la testa. Ed il mondo, in quel momento, è stato sicuramente un posto migliore.
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