di Luca Fiorino
Servizio potente volto a prendere in mano il gioco sin dai primi scambi ed un rovescio spesso vincente col quale lasciava gli avversari fermi sul posto. Questi gli ingredienti principali nella ricetta ideale di Marzio Martelli, ex tennista livornese in grado di raggiungere nel Settembre del 1997 la posizione numero 96 del ranking Atp. Persona simpatica e con la battuta sempre pronta. Nel suo passato tennistico è riuscito a trasferire questa sua personalità anche nello stile di gioco: un tennis vario e divertente ed un servizio che rispondeva presente ogni qualvolta ce n’era bisogno. Memorabili sono le partite giocate negli Slam contro Agassi e Ivanisevic, senza dimenticare la partita in Coppa Davis a Pesaro contro Carlos Moya. Oggi maestro al centro Libertas Sport di Livorno, non ha mai abbandonato negli anni la sua più grande passione, il tennis, unita all’amore per le moto fuoristrada.
Partiamo dagli esordi: Come è iniziata la tua storia col tennis?
La mia storia è molto particolare, credo di essere tra i pochi ad aver iniziato prima come maestro di tennis e poi come tennista professionista. All’età di 20 anni saltai un anno per il servizio militare senza essermi mai allenato. In quegli anni, nel periodo invernale aiutavo nella scuola agonistica di Livorno ed in estate disputavo i tornei di serie B (in quei tempi la Serie A non esisteva ancora) coi quali cominciai a guadagnare qualcosa. Al professionismo non ci pensavo ancora, non avevo un allenatore che mi seguiva, né tantomeno uno sponsor che mi finanziasse. Dopo qualche anno mi cimentai anche nei tornei satelliti. Questi ultimi erano davvero pochi qui in Italia ma erano gli unici a cui potevo partecipare non avendo classifica. L’unico modo per progredire ed accumulare punti era uno solo, andare all’estero. Ciò significava andare incontro a delle spese difficili da sostenere per cui inizialmente lasciai perdere. Nel 96’ arrivò la prima svolta, parecchi circoli organizzarono tornei satelliti. Intrapresi la mia avventura nel mondo dei pro, proprio in quell’anno. A Gennaio partii con Ettore Rossetti verso l’India e conquistai i miei primi 15 punti Atp. In primavera giocai i primi nuovi tornei satelliti in Piemonte,Lombardia e Toscana che mi permisero di costruire un buona classifica (n.159 al mondo). Un ottimo trampolino di lancio che mi spinse a provare a giocare le qualificazioni in tornei challenger. Ad Olbia poco dopo, dalle qualificazioni raggiunsi la finale e tutto ciò non fece altro che incrementare la fiducia in me stesso e nelle mie capacità. A fine stagione tentai le qualificazioni al mio primo torneo Atp. Andai a Palermo e con mio stupore riuscii a raggiungere le semifinali. In un solo anno ero riuscito ad ottenere risultati e successi che mi permisero un salto nel ranking mondiale non indifferente. Molto probabilmente questo salto repentino dai tornei di serie B ad una semifinale di un torneo Atp non l’ho assimilato al meglio, sarebbe stato meglio arrivarci per gradi.
Le partite più rappresentative della tua carriera: Prima Agassi agli Australian Open nel 98’ poi la vittoria contro Ivanisevic al Roland Garros, sempre in quell’anno. Ci racconti i momenti e le sensazioni di quei match?
La partita vinta a Parigi contro Goran Ivanisevic sarà sicuramente uno dei ricordi più belli della mia carriera. Un match storico per me contro un grande campione (tre anni dopo vincitore a Wimbledon) e soprattutto un ottimo servitore. Non fu un caso che quell’incontro si giocò in tre set tiratissimi terminati al tie-break. Strappare la battuta non fu esattamente un’impresa semplice, tanto per me quanto per lui. Ricordo piacevolmente, nonostante la sconfitta, anche la partita contro Agassi a Melbourne. Mi ero portato avanti di un set e conducevo 6-5 nel secondo. La mia arma in più quel giorno fu il servizio, riuscii a mettere a segno più di 25 ace puliti. Più la partita si prolungava però, più l’americano cresceva di livello: se avessi vinto anche il secondo set, sono certo che lui non avrebbe mai mollato la partita anche perché successivamente accusai un vistoso calo fisico. Il set purtroppo se lo aggiudicò al tie-break e la partita finì in quattro set. Fermo, coi piedi piantati sulla riga di fondo e colpi di contro balzo coi quali ti costringeva ad indietreggiare e correre molto. Agassi era davvero un tennista straordinario, unico nel suo genere, seppur nel periodo in cui lo affrontai non era al top della sua forma.
Tra i vari tennisti che hai affrontato, chi ti ha impressionato maggiormente a livello di gioco?
Erano tanti i talenti ad esprimere un tennis straordinario. Alcuni solo a vederli erano capaci di far sembrare facili dei colpi di una difficoltà pazzesca. Due nomi su tutti, Petr Korda e Marcelo Rios, classici esempi di genio e sregolatezza. Col ceco giocai agli Us Open nel 97’ e persi con onore 6-3 7-6 7-6. In quella partita credo che ho messo in mostra un grande gioco. Lui disputò un ottimo incontro tanto che nei successivi ottavi di finale batté Pete Sampras in cinque set a coronamento di un torneo sensazionale. Nonostante un fisico esile, sapeva inventare qualsiasi tipo di giocata sul campo, era davvero imprevedibile se in giornata ideale. Un altro giocatore che adoravo e che possedeva delle potenzialità innate, seppur sia sempre stato poco assistito dalla testa, era Marcelo Rios. Un talento incredibile contro cui ebbi la fortuna di giocare nel 98’ a Roma. In quel match persi per 6-3 6-1, tant’è che una volta metabolizzata la sconfitta pensai: “Cavolo, questo non mi ha fatto proprio giocare”. Nell’arco del torneo poi mi resi conto che anche gente come Tim Henman, Thomas Muster, Richard Kraiicek e Gustavo Kuerten non vinsero un set. Si allenava pochissimo, pensava più semmai alla serata in discoteca che non ad allenarsi il giorno dopo. Nonostante questo, arrivò senza mai vincere un Grande Slam alla prima posizione al mondo. La domanda mi è sempre sorta spontanea: “Uno come Rios, se fosse stato seguito in un certo modo o avesse avuto un altro tipo di testa, che traguardi avrebbe potuto raggiungere in carriera?”.
Quali sono gli aspetti più importanti su cui si fonda la forza di un giocatore?
Campioni si nasce, un po’ come Rios. E’ alla fine una questione genetica, seppur ci siano comunque altri fattori. Il talento ha più sfaccettature, non c’è nel tennis un solo modo per intendere questo termine. Madre natura può donare un grandissimo braccio, un grande fisico ed importanti qualità mentali. Il grande giocatore è chi riesce ad avere queste tre caratteristiche seppur in percentuali diverse. Per ordine di importanza metto al primo posto la testa, è necessario avere una predisposizione mentale volta al sacrificio. A pari merito ci vuole il fisico, che vanno a mio avviso di pari passo. Non si può avere una o l’altra caratteristica per giocare tra i pro. La qualità è importante, ma senza quelle due prerogative aggiunte al lavoro quotidiano, è quasi ininfluente. Al giorno d’oggi tutti sanno giocare bene a tennis entro certi livelli, la differenza credo si veda nei punti importanti. Il campione vero sa quando difendere ed aspettare un gratuito dall’avversario o quando aggredire per ottenere direttamente il punto.
Quali differenze riscontri maggiormente tra il tennis odierno e quello di 20 anni fa?
Il primo dato di fatto è che la palla al giorno d’oggi viaggia molto di più. Il tennis odierno si è velocizzato, vuoi per i nuovi materiali, vuoi pure per l’evoluzione fisica dei giocatori. Vedo sempre gente più alta che serve fortissimo come Raonic o Isner mentre ai miei tempi nonostante ci fossero tennisti alti, la media di allora non credo sia quanto quella attuale. D’altronde l’altezza comporta un fisico di un certo tipo, leve più lunghe che spingono di conseguenza di più. Oggi ciò che manca rispetto al passato è la ricerca della rete, quando vedi un giocatore nei pressi di questa è solo per stringere la mano a fine partita o a punto praticamente concluso. Questo perché ormai tirano talmente forte che non c’è neanche bisogno di andarci o al contrario giocando con tanta potenza non hanno neanche il tempo di fare giocare la volèe.
Hai qualche rimpianto in carriera? Saresti stato in grado di raggiungere in carriera risultati migliori?
E’ una domanda che mi faccio spesso ancora oggi. Vedevo all’epoca dei giocatori attorno alla 50esima posizione che a livello tecnico e fisico erano meno dotati di me. La differenza sostanziale è che loro sono arrivati e io no, c’è poco da aggiungere. Oltre ad un dritto che andava un po’ a fasi alterne il mio vero tallone d’Achille è stata la discontinuità. Una discontinuità dovuta molto probabilmente ad una mia mancanza di tranquillità interiore. Se fossi riuscito a trovare un equilibrio a tutto questo avrei potuto ottenere qualcosina di più a livello sia di classifica che di risultati. Inoltre anche tra i pro, al posto di 3 anni, avrei potuto ambire ad almeno 5-6 anni di attività in più a quel livello. A bocce ferme poi penso alle difficoltà iniziali dovute alle ingenti spese iniziali e al fatto che nel giro di un solo anno sono stato in grado di scalare posizioni su posizioni in classifica. Inoltre io ed il mio ex coach Piero Cocchella intraprendemmo quest’avventura insieme senza nessuna esperienza passata. Col senno di poi posso ritenermi abbastanza soddisfatto e felice di ciò che ho fatto e sono tutt’oggi.
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