Non deve essere facile per nessuno addormentarsi sulla Rod Laver Arena dopo aver cullato il sogno di vincere uno Slam, e svegliarsi di soprassalto sul court 2 di Tashkent, in Uzbekistan, magari a caccia di un quarto di finale Challenger. In questo brutto sogno c’è tanto della carriera di Marcos Baghdatis, istrionico tennista cipriota dalla classe cristallina, che a causa dei tanti infortuni e di un carriera non proprio integerrima (sportivamente parlando), ha dovuto più volte rincorrere condizione atletica e risultati senza mai tornare ai fasti del 2006, l’anno della sua finale agli Open di Australia. Da allora, dieci anni di follie, in un saliscendi da luna park a cinque stelle.
Isolano “doc”, Marcos, allegro, sorridente, uno di quelli che se può rimandare a domani lo farà, statene certi. Vuole giocare, vuole diventare un campione. Con il cuore in mano scappa presto dalla sua Cipro, troppo poco attrezzata per uno sport come il tennis, e raggiunge a soli 13 anni l’accademia parigina di Patrick Mouratoglou dove, lontano dal sole e dall’aria salmastra del “Greco Mar” di foscoliana memoria, migliora giorno dopo giorno fino a diventare numero uno “juniores”, nel 2003.
Sul veloce gioca bene, molto bene. L’inaudita velocità di gambe e l’anticipo sulla palla degno del suo idolo di gioventù, Andre Agassi, ne fanno il classico esempio di contrattaccante. Un attimo lo vedi rincorrere, l’attimo dopo sei lì a chiederti come abbia potuto spazzolare l’ultimo centimetro di riga. Il rovescio è bimane, ma la mano sa staccarla, altroché. Cinque, dieci, quindici back consecutivi per poi poggiare il pennello e caricare il fucile con cui esplodere un proiettile letale, magari lungo linea. Non ha schemi, Marcos Baghdatis. Non lo si può studiare. E’ folle. Come l’ultima decade della sua carriera.
Nell’anno di grazia non arriva solo la finale australiana (in cui si registra, probabilmente, il caso di “adozione sportiva” più divertente della storia del tennis), ma anche una semifinale a Wimbledon ed il primo titolo in carriera, a Pechino, ai danni di Mario Ancic. C’è ancora un croato, Ivan Lujbicic, a frapporsi fra lui e il suo secondo titolo ATP, quello di Zagabria, nel febbraio del 2007. In quella stagione saranno altre due le finali, una a Marsiglia (con il trionfo del padrone di casa Gilles Simon), l’altra sull’erba di Halle (persa da Tomas Berdych).
Marcos sorride, come sempre. Non lo sa ancora, ma è appena salito sulla giostra. Nel 2008 le montagne russe scendono molto velocemente. Niente titoli, niente finali, solo il primo, brutto infortunio che lo terrà lontano dai campi per oltre due mesi.
La classifica si fa sempre più triste. Niente “top 10”, come nel 2006, nemmeno la “top 30” del 2008. La nuova stagione riparte dai pressi della posizione numero 100, dove c’è parecchio da faticare. Con il nuovo coach, Edoardo Infantino, si ride di meno e si corre di più. La condizione fisica migliora (non il peso forma, dogma insuperabile), e con essa anche la potenza dei colpi e la profondità di palla. A tratti si rivede il vero Baghdatis, capace, nella seconda parte dell’anno, di regalarsi i Challenger di Vancouver e di St. Remy, oltre all’ATP 250 di Stoccolma. La giostra sale di nuovo, finalmente. Nel 2010 si riparte “da casa”, con la bella vittoria di Sydney. Poi ancora una semifinale a Dubai (in un match incredibile con il serbo Novak Djokovic), una a Monaco (la terra battuta, questa sconosciuta) e le finali di Washington e Mosca. Ma si – ci diciamo tutti – è di nuovo lui! Ogni match è spettacolo puro, non solo per i colpi ma anche per il suo modo di essere. Smorfie, salti, continui segni della croce. Il pubblico di ogni torneo lo adora, ne apprezza al contempo le doti umane e quelle da tennista. Un lottatore con il sorriso, che nell’anno della “top 20” si toglie anche lo sfizio di battere prima Roger Federer (nel deserto californiano di Indian Wells), poi Rafael Nadal (a Cincinnati), entrambi al vertice del ranking ATP durante le rispettive sfide con il cipriota.
Si inizia a parlare di consacrazione, di maturità. “Domani”, avrà pensato Marcos. Per un paio d’anni la giostra si ferma. Nessun passo avanti, nessuna eclatante débacle. Questa strana fase di transizione, però, non ha i prodromi dei giorni migliori. I risultati latitano. Prima un infortunio, poi un altro. A fine 2013 la giostra si ferma alla posizione numero 86. Bisogna ripartire. Con il sorriso. Al diavolo l’orgoglio, gli stadi pieni, i grandi avversari: Baghdatis ricomincia dai Challenger. Si sale, si scende, si sale di nuovo. La stagione estiva è molto promettente. Dopo la vittoria di Nottingham, arrivano quelle consecutive di Vancouver e di Aptos (entrambe nel mese di agosto), prima dell’ultimo successo dell’anno a Geneve. Tira un vento nuovo da Cipro, ancora una volta.
Il 2015 restituisce al circuito un Marcos Baghdatis più maturo, più convinto, più ambizioso. L’obiettivo è quello di tornare nei primi 50 giocatori del mondo. Agli Australian Open solo un sontuoso Dimitrov, (vincente in cinque set), gli impedisce di accedere agli ottavi di finale. La stagione è un continuo crescendo, non solo dal punto di vista dei risultati (finale ad Atlanta e semifinali a Zagabria e a Stoccolma, ad esempio) ma anche (e soprattutto) sul piano del livello di gioco e della capacità di fare partita pari con coloro che appena sei mesi prima sembravano già degli ex colleghi. Chiude al numero 46, obiettivo raggiunto. Il processo di resurrezione ha tutta l’aria di non volersi arrestare nemmeno in questo 2016. La finale di Dubai della scorsa settimana (a cinque anni dall’ultima in un ATP 500), e le sconfitte di Montpellier e Rotterdam (arrivate solamente per mano dei futuri vincitori del torneo) sono un segnale chiarissimo. Solo pochi giorni fa, inoltre, c’è stato spazio anche per scrivere un altro piccolo pezzo di storia, infrangendo il record di 33 vittorie consecutive in Coppa Davis di Bjorn Borg.
In questo momento storico il tennis ha un estremo bisogno di lui. Marcos è, e sarà sempre la risposta giusta alla crisi della fantasia, spesso troppo frustrata dai vecchi cannibali e dalle nuove generazioni. Per questo motivo il suo rientro ad alto livello è una delle note più liete del 2016.
La giostra è ripartita. Altro giro, altra corsa, altro sorriso.
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