Sono passati quarantaquattro anni da quella maledetta notte del 5 settembre 1972, quando una banda di terroristi palestinesi, nota con il nome di “Settembre Nero”, fece irruzione al villaggio olimpico di Monaco di Baviera dove alloggiavano gli atleti israeliani, mettendo in atto uno dei più tragici sequestri della storia, culminato con la morte di 11 atleti, 5 terroristi e un poliziotto tedesco. Quella notte tirarono su un muro, più solido e invalicabile rispetto a quello più famoso creato da altri, undici anni prima, 500 km più a nord. Da allora, per un atleta arabo, divenne impossibile competere serenamente contro un israeliano.
Da un lato lo sport, l’impegno, la passione, i valori. Dall’altro la politica, da sempre figlia dell’economia. Lunga storia triste. Vecchia e triste. Rapporti commerciali e affari sono da troppo tempo beni di prima necessità di molte federazioni, in grado di calpestare con disarmante nonchalance diritti umani e civili dei propri rappresentanti. Nossignore, un divieto non è sport.
Pochi giorni fa, ad Istanbul, sul campo centrale dell’American Express Open, torneo challenger da 75.000 dollari, si è accesa una luce pur essendo le 14.15. La luce della speranza. Ci sono riusciti finalmente, Malek Jaziri e Dudi Sela, a scendere in campo da avversari, da professionisti, da amici. Malek e Dudi, non Tunisia ed Israele. Ha vinto Jaziri, ma non è questo a fare notizia. Per una volta. Dopo ritiri assai dubbi, squalifiche e minacce, Malek e Dudi hanno preso a racchettate quel muro e l’hanno buttato giù.
Era l’ottobre del 2013 quando il tennista tunisino, in patria una vera e propria popstar, venne costretto dai buoni uffici dei suoi connazionali a ritirarsi dal challenger di Tashkent prima del match contro Amir Weintraub. Si, proprio Amir Weintraub, allora suo compagno di squadra nel Sarcelles, Serie A francese. Il contenuto della mail era molto simile a questo: “Malek, ti ricordi vero? Noi non riconosciamo lo stato di Israele quindi tu, contro uno di loro, non giochi”. Colpito e affondato. Alla storia dell’infortunio al ginocchio destro, con cui Jaziri si presentò da Carmelo di Dio, supervisor del torneo, non ha mai creduto nessuno. L’ITF, dal canto suo, non rimase a guardare e squalificò per un anno la Tunisia dalla Coppa Davis per “interferenza con la prassi sportiva internazionale”.
Solo pochi mesi prima era accaduto qualcosa di simile, anche se foriero di maggiori dubbi, nel circuito femminile. A Baku, la tunisina Ons Jabeur (che aveva comunque iniziato il torneo con un vistoso tutore) si ritirò a due game dalla vittoria, avanti 6-3 4-1 con la polacca Magda Linette. In semifinale avrebbe dovuto affrontare Shahar Peer, ex soldatessa dell’esercito israeliano. La Jabeur si nascose dietro una caviglia malandata, ma anche in quel caso non furono molti a darle credito.
Nessun dubbio invece, sulle ragioni che a luglio del 2006 spinsero l’Indonesia, la più vasta nazione musulmana al mondo, a non affrontare Israele in Fed Cup. Sarebbe stato il terzo confronto fra le due nazionali, ma dopo il rifiuto dell’ITF di spostare l’incontro in campo neutro, l’Indonesia decise di non partire per Ramat Hasharon sebbene il governo, pur in assenza di relazioni diplomatiche, avesse dato il preventivo via libera alla trasferta. Nell’aria non vi era di certo un clima disteso. Erano i primi giorni dell’operazione Piogge Estive, quando un commando giunto dall’ala militare di Hamas reagì ai primi attacchi assaltando una postazione delle Forze di difesa israeliane. Ci furono morti e rapiti, ma l’allora primo ministro israeliano, Ehud Olmert, decise di non negoziare con i “terroristi”.
Altro giro, altra corsa. Lo scorso anno, al torneo di Montpellier, Jaziri, sempre lui, era avanti un set con l’uzbeko Denis Istomin, prima di ritirarsi misteriosamente. Ad attendere il vincente di quel match, c’era Dudi Sela, sempre lui. Ah.
Anche a Wimbledon, la federtennis tunisina è riuscita a spegnere la luce, non dando alcuna rilevanza al fatto che il solito Jaziri, beniamino di casa e ambasciatore del turismo, avesse estromesso, in coppia con lo spagnolo Guillermo Garcia Lopez, due campioni slam come Simone Bolelli e Fabio Fognini. Il soldato Malek non avrebbe posato il suo sguardo sul nemico israeliano Jonathan Elrich, in una folle guerra senza vincitori. Ritiro, ancora una volta.
La finale di Istanbul sembra aver squarciato il velo dell’ipocrisia e la storia, almeno una volta, pare aver insegnato qualcosa. Lo sport, da sempre, ha saputo unire popoli e culture, ha portato pace dove c’era guerra, condivisione dove c’era discordia.
Mettiamoci da parte, allora.
E lasciamo la luce accesa.
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