di Federico Mariani
“L’unica cosa che conta è essere il numero uno, John. Lo sappiamo tutti e due. Se ti accontenti del numero due, perché non del numero tre o del numero quattro? Sotto il primo posto non sei nessuno”. Così sentenziava Bjorn Borg al rivale di sempre John McEnroe. Lo svedese era un tipo piuttosto taciturno, ai limiti del mutismo, ma nelle rare occasioni in cui parlava, non conosceva la banalità.
In questa frase c’è tutto. C’è il tennis dentro o, perlomeno, quello di altissimo livello. E’ una frase malvagia, brutale, quasi scoraggiante, ma vera, terribilmente vera. Quando si entra in un certo contesto, gli standard si elevano oltremodo ed anche una finale persa, che equivale ad un secondo posto, può risultare un misero fallimento.
C’è un club profondamente elitario di cui sono membri i vincitori di Slam, ma anche tra questi eroi con la racchetta sono evidenti delle chiare gerarchie. Andy Murray, uscito sconfitto dalla finale di Melbourne, non può considerarsi un pari di Novak Djokovic, il vincitore. Non certamente per la partita in sé considerata, quanto per la conformazione che le due carriere stanno prendendo. A ridosso della sesta finale persa su otto, sorge spontaneo interpellarsi sulla legittimità di annoverare lo scozzese nei famosi Fab 4 del tennis moderno. La recente evoluzione dello scozzese ed il suo terribile record nei momenti che contano davvero, inducono a rispondere negativamente alla domanda.
La finale di domenica è stata francamente una partita mediocre, giocata al di sotto delle aspettative da entrambi. Per due set ha regnato l’equilibrio assoluto, l’inerzia dell’incontro danzava delicatamente su un filo sottile, seducendo ora l’uno, ora l’altro contendente senza mai permettere uno squarcio vero. Tuttavia, Djokovic nella sua testa aveva già vinto, Murray già perso. C’è stato un momento, però, capace di mischiare le carte in tavola: ad inizio terzo set, lo scozzese piazza il break in apertura ad un Nole arrendevole e remissivo, almeno all’apparenza. In quell’istante (forse) Andy ha cominciato a contemplare la vittoria, a crederci davvero, ed è lì che, invece, è scomparso dal campo conquistando la miseria di un gioco dei successivi tredici. Una sconfitta arrivata prima nella testa che nel tennis, ed anche se lo score del terzo e quarto set è oltremodo severo per quanto visto in campo, dà la giusta dimensione della differenza tra un campione ed un fuoriclasse.
Il pessimo ruolino di marcia di Murray nelle finali Slam ci fornisce l’assist per cercare a ritroso nella storia del gioco situazioni simili. Come detto, lo scozzese ha un bilancio deficitario di due vinte e sei perse, il 25% di successo. Curioso constatare come Murray abbia affrontato solo due avversari nelle otto finali disputate: ha vinto a New York e Wimbledon con Djokovic, ma ha perso con lo stesso le tre finali australiane cui vanno aggiunte le tre sconfitte subite da Roger Federer equamente distribuite tra Melbourne, Londra e New York. A ben vedere, è interessante registrare anche come queste finali sono state perse: nelle sei stecche all’ultimo atto, Murray non solo non ha mai forzato l’incontro al quinto set, ma ha racimolato solamente tre set su ventuno giocati, numeri figli di tre sconfitte per 3-0 ed altrettante per 3-1. In sua difesa va ricordato che in tutte e otto le finali disputate, mai lo scozzese aveva i favori del pronostico dalla sua prima di scendere in campo.
Tra chi ha vinto almeno una prova dello Slam, c’è solo un giocatore ad aver fatto peggio del britannico e si tratta ovviamente di Andy Roddick col suo 1/5, un misero 20% generato totalmente da Federer capace di battere l’uomo del Nebraska in quattro finali su quattro (tre a Wimbledon ed una a New York). Al pari di Murray troviamo, invece, Chang con una vittoria e tre sconfitte.
In contrapposizione a questi, ci sono numeri di tutt’altra matrice per i grandissimi della racchetta con la sola eccezione di Ivan Lendl, unico tra gli “immortali” a restare sotto il 50% di successi pagando a caro prezzo le quattro sconfitte nelle prime quattro finali disputate prima del Roland Garros 1984. Djokovic, come Agassi, non ha tuttavia un rendimento ottimo con otto successi su quindici. Di ben altro spessore, invece, i numeri di Federer e Nadal: 68% di successi per lo svizzero, 70% per il maiorchino. Borg, McEnroe, Edberg, Becker, Connors, Wilander, Courier sono tutti sopra il 50%. Al 100% troviamo solo Muster e Kuerten che, però, hanno vinto rispettivamente “solo” uno e tre Roland Garros, senza mai fallire l’appuntamento decisivo. Il migliore della compagnia resta Pete Sampras: lo statunitense è stato in grado di vincere quattordici titoli in appena diciotto finali.
Tornando all’attualità, i numeri si dimostrano impietosi nei confronti di Murray e fotografanola distanza esistente tra lui ed i campionissimi, una distanza verosimilmente incolmabile. Viceversa, la finale di Melbourne consegna a Djokovic l’immortalità tennistica con numeri sempre più vicini a quelli di una leggenda.
Il tennis, lo sport del diavolo, nella sua più alta sublimazione diviene spietato. Non c’è spazio né gloria per i secondi. Djokovic si è elevato abbandonando forse in modo definitivo lo status di fuoriclasse ed abbracciando quello di campione. Murray, invece, è rimasto e probabilmente rimarrà nel dorato limbo di chi si trova appena sotto i grandissimi. E’ una questione di vincere o perdere.
Leggi anche:
- None Found