di Luca Brancher
Evgeny Korolev si ritira dal tennis: quando la notizia ha fatto capolino nelle agenzie di informazione, cominciando a rimbalzare tra siti del settore e piattaforme sociali, la prima sensazione è stata quella di smarrimento, non tanto perché il kazako-fu-russo abbia sorpreso con questo annuncio, quanto più precisamente perché assumeva le sembianze dii un atto dovuto, pleonastico, superfluo, dal momento che, giunto alle soglie dei 27 anni, con infortuni sulle spalle, specie nell’ultimo triennio, difficili da assorbire, si faticava in tutta onestà a definirlo ancora un tennista, quantomeno professionista.
Evgeny Korolev diventa personaggio da subito, per un motivo assolutamente non meritocratico, dal momento che la madre Irina, casalinga, è la sorella della madre di Anna Kournikova, di cui il nostro eroe è quindi cugino di primo grado. Nonostante questo, a portare il tennis a casa Korolev è l’omonimo padre, che lo avvicina alla pratica già solo dopo quattro anni di vita. E mai scelta si rivela più azzeccata, perché oltre alla capacità, il moscovita mostra una precocità che difficilmente può venire contenuta nelle manifestazioni junior, che Evgeny salta a piè pari, tanto che il suo profilo non è nemmeno tracciato nel sito di categoria della federazione internazionale.
A cosa sarebbe, in verità, servito, se il giovane Evgeny già a 17 anni è capace non solo di fare incetta di titoli ITF, ma di aggiudicarsi un alloro a livello challenger, in quella Aachen che sarebbe diventata un suo feudo, conseguendo per quattro anni consecutivi la finale nella kermesse novembrina della Renania Settentrionale e mettendo in bacheca ben tre titoli. Una strana forma di affiliazione con questa manifestazione, così come con la Germania intera, dove il neo kazako si trasferisce in quegli anni. Evgeny non impressiona per pulizia, ma è dotato di una potenza strabordante, in particolare col rovescio, e lascia interdetti, permettendo agli affezionati di infilarsi in quello stucchevole esercizio dell’immaginarsi che tutti quei margini mostrati – perché il ragazzo pare tutto, meno che completamente formato –possano in un certo qual senso venire colmati, dando forma ad un futuro dominatore mondiale.
E quando le candeline da spegnere, sopra la torta, sono diciottenne, arriva anche lo scalpo di prestigio, quello appartenuto al sesto tennista più forte del mondo, Nikolay Davydenko, in quella Marsiglia ambientazione iniziale del dumasiano “Il Conte di Montecristo”, ma differentemente da Edmond Dantes, la cui storia si dipana lungo un percorso riabilitativo che lo traduce dalla disgrazia fino alla vendetta nei confronti di chi in quello stato lo aveva sospinto, il moscovita vedrà le sue sorti andare al contrario, dall’iniziale esuberanza verso una lenta e triste discesa agli inferi sportivi e medici, senza tenere conto del ruolo non secondario del destino.
Ad aprile si aggiunge anche il successo sulla terra battuta catalana contro Carlos Moya, e battere un iberico di un certo rango a Barcelona è sempre sintomo di un tasso atletico-qualitativo piuttosto elevato. I risultati arrivano di conseguenza, a Parigi supera Andreas Seppi e con il giungere dell’autunno la top-100 si materializza. A soli diciotto anni, tutta la vita, tennistica e non, davanti. Ed è proprio qui che si palesa l’evidenza che non sia tutto oro ciò che luccica, venendo meno quei miglioramenti che sarebbero leciti attendersi da un giocatore in evoluzione. Nulla di trascendentale, voglio dire, ma nemmeno timidi segnali, neanche quelli.
Balza agli onori della cronaca per lo scandalo del torneo di Las Vegas del 2007 – il funerale della formula round robin – ma è l’occasione in cui meglio figura nel biennio successivo alla sua esplosione, assieme a Valencia 2008, ci sono troppi intoppi, troppe sconfitte anzitempo, quando conta, come negli Slam, dove non è mai in grado di dare l’impressione di poter essere protagonista. E’ giovane, ancora. Il tempo, però, inesorabilmente passa. Curioso come, proprio nel 2007, in Nevada, nel girone iniziale, quello le cui conclusioni azzardate comportarono la nota confusione, comparivano Korolev e Del Potro. Uniti da due fattori fondamentali: l’anno di nascita e il mondo del tennis da conquistare.
Soltanto uno, almeno in parte, riuscirà in questo secondo proposito
“Ma chiedilo a Kurt Cobain
come ci si sente a stare sopra un piedistallo
e a non cadere”
C’è sempre un acuto, c’è anche una finale ATP, a Delray Beach, ad inizio 2009, ma permangono sparuti episodi, rari, quando a fare notizie invece sono le sconfitte consecutive. La top-100 si allontana, diventa chimera, e dal 2011 sono gli infortuni a diventare i padroni di ogni sua futura evoluzione. L’ultima cartuccia viene sparata nel 2013, quando, convocato per la Davis Cup, nella formazione di quel Kazakhstan che lo aveva addocchiato nel suo periodo di campagna acquisti, sconfigge Jurgen Melzer e l’Austria nel primo turno, ma poiché pare che Jesus don’t want him for a sunbeam, ‘cause sunbeams are not made like him, il suo successivo rientro del circuito affossa le sue parche velleità.
Fino agli ultimi tentativi di quest’autunno, nel circuito challenger, con una vittoria conclusiva su una probabile futura stella come l’elvetico Marko Osmakcic, che avrà rivisto nel talentuoso moscovita, di dieci anni più vecchio, una sorta di Natale degli anni passati, da novello Ebenezer Scrooge che volesse evitare di ripercorrerne le stesse orme, ma, nel tennis, assiomi e teoremi non valgono niente, per cui più che conslgli su cosa non fare, Korolev dovrebbe ricordargli quanto sia importante garantirsi l’integrità fisica, su cui vale anche l’intercessione della buona sorte. Il match-point vinto contro il 16enne svizzero sarebbe stato l’ultimo punto giocato da Evgeny come professionista.
Rimane davvero l’emblema di cosa è mancato tra la generazione dei Safin e Davydenko e la probabile futura progenie di eroi capitanata da Rublev e Safiullin, con l’unico punto interrogativo legato al fatto che Andrey e Roman potrebbero divenire, ma non sono, mentre Marat e Nikolay sono sicuramente stati. Ed Evgeny? Beh lui è durato troppo poco, davvero troppo poco. Ed oggi non gli resta che godersi la famiglia, la moglie e la piccole prole, dimenticandosi di quello che è stato, e di quello che sarebbe potuto essere. Di quando in Russia era diventato davvero qualcuno, testimonial di alcune aziende nazionali, con spot perfino in tv. E non provare più niente, e non provare più niente, e non avere più niente.
Da dire. Anzi, qualcosa sì.
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