(Julien Jeanpierre, numero 2 Junior alla fine del 1998)
di Luca Brancher
VIAGGIO NEL MONDO DEGLI JUNIORS CHE FURONO (prima parte)
“C’è stato un periodo in cui, nella classifica mondiale, al numero 1 c’era Federer ed al numero 3 Nalbandian, Ti ricordi chi stava al numero 2?”
“Mmm, presumo Nadal?”
“No, Jeanpierre, Julien Jeanpierre.”
Roland Garros di qualche anno fa. Roger Federer vorrebbe uno sparring-parntner per scambiare qualche palla, sul Centrale, prima che comincino gli incontri di giornata. Si reca quindi al desk e chiede che gliene venga affidato uno d’ufficio dall’organizzazione: non si fa a fatica a trovarne, di discreti giocatori che fanno domanda per questo ruolo. Quando poi Roger, all’ora stabilita, vede entrare sul campo quello che gli era stato assegnato, ha un sussulto “Non ci credo! Julien, sei proprio tu!”. Gli era toccato il suo rivale da junior – Julien Jeanpierre – quello che, per diverse annate, lo aveva ostacolato, dall’alto del suo anno di anzianità in più, ma che alla fine c’aveva rimesso le penne. Nulla di strano, quando si parla di un rivale di Federer.
“E’ incredibile. Quando eravamo ragazzini, a 15-16 anni, tutti volevamo giocare contro di lui. Gli riconoscevamo un talento superiore ed una tecnica fuori dal comune, ma era troppo fragile caratterialmente, tanto che perdeva le partite solo per suoi demeriti; era troppo nervoso, contro di me una volta ruppe tre racchette nel giro di quattro giochi. Poi, quando diventammo junior, lui si calmò, e cominciò ad essere più simile al Roger che tutti amiamo.”
Il ranking mondiale junior di fine 1998 pare essere un messaggio ben chiaro a tutti coloro i quali discriminano e denigrano le competizioni giovanili. Solo nella top-5 troviamo, in ordine numerico, Federer, Nalbandian, Gonzalez e Coria (quindi quattro giocatori capaci quantomeno di raggiungere una finale Slam – a rimanere bassi) ed appunto Julien Jeanpierre, talento francese bloccato quasi subito dagli infortuni.
Veramente sfortunata la carriera, che mai è stata in verità tale, dell’ormai 33enne atleta transalpino, capace di suscitare il clamore quando diciottenne giocò i tornei giovanili al di là dell’Oceano Atlantico. “Jeanpierre è il miglior prodotto francese a raggiungere le coste americane dai tempi del crossaint. Ma se quest’ultimo lo abbiamo fatto diventare il croissan’wich, Julien sta invece collezionando trofei e riconoscimenti” recitava un quotidiano sportivo a stelle e strisce. Purtroppo il destino è stato amaro e la nomea del ragazzo di Reniremont non è accresciuta a tal punto da entrare nell’immaginario collettivo del popolo yankees come invece è capitato alla portata principale della colazione di Burger King. Sbarcato nel mondo pro’, Jeanpierre ha manifestato dei fastidi alla caviglia – sottovalutati in un primo momento dai medici– che gli sono costati parecchio tempo ai box e che ne ha ostacolato il completo ambientamento e l’eventuale esplosione. Qualcosa ha combinato poi, come un terzo turno al Roland Garros del 2004, però, insomma, le premesse erano ben altre…
In fondo, di quella top-ten, ad essere ancora sul circuito attualmente, è rimasto solo Roger Federer, a meno che non si voglia guardare la classifica completa, dove a comparire, oltre la 700esima posizione, c’è anche Andreas Vinciguerra, ma la sua presenza attuale da comparsa di misero lignaggio stona con quanto mostrato nelle prime annate sul circuito, quando poco più che ventenne aveva raggiunto, con una progressione prodigiosa, corroborata dal titolo ATP di Copenhagen conquistato ai danni del connazionale Magnus Larsson, la 33esima piazza nella graduatoria assoluta, poco prima che la schiena uccidesse le velleità di far accrescere ancora di più il prestigio di questo “svedese di Taormina”. Sorte, in piccolo, analoga per un altro giocatore del Nord-Europa, come Kristian Pless, che sarebbe divenuto numero 1 a fine 1999, grazie al successo agli Australian Open ed al Bonfiglio, oltre alle finali di Wimbledon e Flushing Meadows. Finali, però, come se il suo destino di junior di bel – il suo gioco era parecchio brioso – perdente fosse un sintomo sfociato in una patologia tennistica ben più grave tra i pro’, dove le difficoltà, oltre alle carenze fisiche, lo avrebbe risucchiato quasi immediatamente nel mediocre panorama generale. Fino a qualche stagione fa lo si vedeva nei bassifondi della Coppa Davis a dar manforte ad una selezione danese mai troppo competitiva, mentre è possibile scrutare ancora, nei tabelloni futures di doppio, Lovro Zovko, che ormai è passato dall’altra parte della barricata (allenatore) e si diletta così nei ritagli di tempo. Di Artem Derepasko, invece, poco si può raccontare, mentre di Irakli Labadze di cose da dire ce ne sarebbero forse troppe. Già. Definirlo una promessa mancata è limitativo, dal momento che il georgiano ha cercato di essere un tennista senza essere un’atleta. Difficile, soprattutto di questi tempi.
Nel 2004, a Indian Wells, Irakli (nella foto a destra) colse una semifinale tutt’altro che pronosticabile: sembrava potesse essere il preludio ad una carriera interessante, in realtà si trattò soltanto della creazione di uno spauracchio per la nostra nazionale di Davis impegnata di lì a qualche settimana in uno scomodo incontro di Davis (dove l’Italia vinse, ma perse due punti contro Labadze) e di un successivo poco invidiabile ruolino di 12 sconfitte consecutive a livello ATP. Sarebbe tornato in auge due anni dopo, quando a Wimbledon, presentatosi in condizioni atletiche apparentemente inaccettabili, avrebbe annullato un match-point nelle qualificazioni a Marc Lopez, prima di issarsi fino agli ottavi di finale, dove però non avrebbe retto l’onda d’urto di Rafa Nadal. Troppo bello per essere vero: infatti non sarebbe stato vero a lungo. Ed ormai era troppo tardi: oltre a lui, insomma, l’unica altra storia interessante resta quella di Jeanpierre.
Julien, visto anche nelle vesti di sparring di Vika Azarenka – “Conosco bene il suo coach, e mi ha contattato. Ogni tanto ci giochiamo delle partite, ma vinco sempre io, non c’è storia. Forse soltanto Serena, in giornata di grazia al servizio, potrebbe crearmi qualche grattacapo” – non fatica ad ammettere che non aver chiuso l’anno al numero 1, nel 1998, gli ha bruciato non poco. “Eravamo all’Orange Bowl, e sapevo che se fossi arrivato in semifinale sarei diventato il numero 1, a prescindere dal risultato di Roger. Il sorteggio, però, fu poco fortunato, perché mi mise contro Feliciano Lopez: lui non era testa di serie, nonostante avesse una discreta classifica ATP, perché non giocava junior, ma la scelta di non annoverarlo tra i favoriti aveva fatto infuriare non poco gli spagnoli, che stavano per boicottare il torneo. Gioco, e perdo al terzo. Per avere speranze di diventare il numero 1 avevo solo una possibilità: che Federer perdesse al primo turno. Impossibile, giocava contro un lettone sconosciuto (Raimonds Sproga, uno dei tanti allievi dei genitori di Andis Juska). Ed invece fu costretto a fronteggiare tre match-point, ma poi vinse il match ed anche la manifestazione.” Cose da Federer.
Un’amicizia che sopravvive, anche se le occasioni per vedersi sono veramente poche, mentre da ragazzini, invece, erano evidentemente di più. “Sul campo ci siamo affrontati tre volte: due in occasione di tornei di preparazione all’Australian Open 1998, e ne vincemmo una a testa, ma quella che mi è rimasta più impressa risale ad un torneo italiano, Prato, dell’anno precedente. Vinse 6-3 6-0, e giocò in maniera splendida. Sembrava che per lui fosse tutto semplice, e faceva sempre punto con uno schema. Servizio e poi dritto. A fine match glielo dissi pure.
Quando l’ho rivisto prima della finale del Roland Garros del 2008, dove avrebbe affrontato per la terza volta Rafa Nadal, mi disse ‘Quest’anno devo provare a cambiare qualcosa, perché mi batte sempre. Farò come mi dicesti te quella volta: servizio e poi dritto. Speriamo funzioni’ Incredibile, ricordava ancora quello che gli avevo detto dopo oltre decennio!”. Non funzionerà, anzi lo svizzero andò incontro ad una delle batoste più nette contro il mallorquino, ma poco importa, perché l’anno dopo si sarebbe preso anche l’ultimo Slam che gli mancava. In quei giorni Jeanpierre giocava, e perdeva, nelle qualificazioni del challenger di Lugano. Di lì a poco l’addio.
Leggi anche:
- None Found