Mano morbida, andatura ciondolante e sorniona, faccia da Luigi (dal famoso gioco per Nintendo), servizio e dritto devastanti. Questo, e molto altro, è Steve Johnson, prodotto esemplare del tennis americano ma anche, per essere ancora più specifici, dell’ambiente universitario sempre americano. Sì perché Steve, che ha scalato la classifica ATP fino a essersi stabilizzato all’interno dei primi 50 giocatori del mondo ormai da qualche anno, rappresenta pienamente i valori così tipici dell’ambiente dei college, capaci di rendere uno sport altamente individuale come il tennis uno sport di squadra.
“Non lasciare che ti dicano che non puoi avere successo completando i quattro anni di università”, gli disse John Isner quando Johnson lo chiamò alla fine del suo terzo anno alla University of Southern California, a Los Angeles. I dubbi sarebbero venuti a tutti: la squadra aveva vinto per tre anni di fila il campionato nazionale a squadre e lui, come singolarista, aveva vinto il torneo NCAA, il “master” di fine anno. Non aveva perso una partita in tutta la stagione e, forse, pensava di aver fatto quello che doveva fare, di aver finito il suo lavoro. Ma c’era la squadra, c’erano i suoi compagni e i suoi due allenatori, Peter Smith e George Husack, senza i quali, come dice Johnson stesso, “non sarei mai stato in grado di vincere 72 partite di fila”. Quindi che fare? Posticipare l’ingresso tra i professionisti? Il livello sicuramente era già molto alto visto che ad agosto 2011, appena cominciato il suo ultimo anno in università, perdeva un tiratissimo quinto set contro Bogomolov (44 ATP all’epoca) al primo turno degli US Open rifiutando, tra l’altro, un montepremi di qualche decina di migliaia di dollari.
Johnson affrontò l’ultimo anno di università da super-favorito e mantenne le promesse fino alla fine, nonostante infortuni e alcuni incontri a squadre vinti sul filo del rasoio. La finale fu un’epopea di quelle da raccontare ai nipotini tra partite sospese per pioggia, una durata complessiva di otto ore e una conclusione al cardiopalma arrivata solamente all’una e mezza del mattino grazie a una vittoria al tiebreak del terzo set da parte di Hanfmann, compagno del primo anno adesso estremamente vicino ai primi 100 del mondo. Johnson stava ancora recuperando da uno stiramento addominale, soffriva di periostite e cominciava a manifestarsi una frattura da stress ma, come disse coach Smith, “era ammaccato e malridotto, e non aveva intenzione di perdere”. La vittima quel giorno fu Jarmere Jenkins, issatosi poi fino alla posizione 190 del ranking qualche anno più tardi ma ritiratosi per i costi proibitivi di questo sport, regolato in due brevi set.
Johnson aveva deciso di rimanere in università anche grazie all’opinione del padre, Steve Johnson Sr., allenatore di tennis e grande sostenitore degli sport universitari. Era lui, tra gli altri, che gli aveva fatto questo semplice discorso: “Se vedi che continui a migliorare, che cresci e che diventi più forte, non cambiare le cose”. Fu quindi difficile, per “Stevie”, rimanere concentrato sul tennis quando apprese la notizia della morte del padre a metà maggio dell’anno scorso, un paio di settimane prima del Roland Garros. Le lacrime versate a Parigi erano testimoni di una finalmente manifestata sensibilità e di come, soprattutto in America, il tennis diventi spesso uno sport di famiglia. Infatti, mentre tanti studenti preferiscono gli sport di squadra da ragazzini e il tennis ha poco seguito a livello televisivo, la passione viene solitamente tramandata da genitore a figlio, in tutte le sue sfaccettature. Basti pensare alle sorelle Williams, ad Agassi, a Connors, a Chris Evert, tutti allenati dai propri genitori, nel buono e nel cattivo tempo.
La figura di Steve Johnson è molto umana: dopo la morte del padre disse di non avere più aspettative sul suo futuro tennistico ed esplose in pianto diverse volte durante la stagione. Anche adesso, dice, è dura guardare verso il suo box e non vederlo presente. Un affetto del genere verso il proprio padre è sicuramente atteso ma dimostra anche come, nella vita di Steve, siano state spesso le relazioni personali a dettare le scelte più importanti: più dei soldi, più del successo. La scelta di rimanere in università è sicuramente figlia di questo aspetto come lo è, in questi mesi, la scelta di continuare a giocare a tennis, “perché lui vorrebbe che io rimanessi qui, a lottare, come mi ha insegnato”.
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