John Robert Isner comincia la sua carriera alla University of Georgia ad agosto 2003, a diciotto anni compiuti. La sua carriera da junior era stata buona ma non eclatante, vincendo alcuni titoli nazionali in doppio ed entrando a stento nei primi 100 del mondo under 18, anche se si sa: molti americani decidono di non viaggiare molto a livello giovanile e questo non può che pesare sulla classifica mondiale.
La University of Georgia è un gioiellino a un’oretta dalla capitale Atlanta. È in una cittadina piccola di nome Athens che si anima di vita soprattutto quando l’università, con i suoi 35 mila studenti, non è in vacanza; è anche uno dei templi del tennis universitario americano, con impianti invidiabili e uno stadio per il tennis con spalti altissimi che farebbe invidia a molte strutture nostrane. Per molti anni qui si è giocato il campionato NCAA, il “master” di fine anno a cui possono partecipare i primi 64 giocatori della classifica universitaria per giocarsi un posto da All-American. Durante quelle settimana l’aria è elettrica e il tennis pervade ogni aspetto della vita della cittadina, diventando l’interesse principale di migliaia di persone. Isner non vinse mai il campionato NCAA in singolo perché il suo ultimo anno venne fermato in finale da quel Somdev Devvarman, indiano della University of Virginia, arrampicatosi fino alla posizione 62 del tennis mondiale solo pochi anni fa. Riuscì però ad aggiudicarsi l’alloro da molti considerato il più importante, ovvero il trofeo a squadre per la sua università, davanti alla sua famiglia e ai suoi amici.
La vicinanza con la famiglia è sempre stata un punto fondamentale per John: attaccato alle sue origini e abitudinario, non si allontanò mai molto dalla sua Greensboro, in North Carolina, che si trovava qualche ora di macchina più a nord. Appena poteva tornava a fare un giro a casa e anche adesso, che viaggia per il mondo, casa sua e Athens sono le mete preferite per rilassarsi e staccare per qualche giorno dal frastuono del circuito. Adesso almeno può difendersi dai suoi fratelli maggiori, che lo bullizzavano quando potevano permetterselo ma, assestatisi ormai alla modesta altezza di 195 cm contro i suoi 208, non osano più prendersi gioco di lui. Ma John è un ragazzone di buon carattere e benvoluto da tutti e solitamente non infierisce.
Tutto questo finché non si entra sul campo da tennis, dove viene fuori tutto il carattere costruito, come dice lui, in anni di incontri a livello universitario: del resto avere una squadra che dipende da te, un tifo da stadio e un’orda di ubriachi che ti tira oggetti addosso e ti chiama “freak” perché sei troppo alto, qualcosa te lo deve lasciare. A John hanno lasciato un carattere di ferro e un adattamento a condizioni avverse davvero invidiabile, che non a caso l’hanno portato a disputare e vincere alcuni incontri epici a livello professionistico. Quello che ci ricordiamo tutti? Il primo turno a Wimbledon 2010 contro Mahut, dove vennero frantumati tutti i record di durata di un set, di un incontro, di ace e di numero di game giocati, al termine di una partita di oltre 11 ore spalmate su 3 giorni. Un incontro così psicologicamente estenuante che anche Isner, a fine incontro, borbottava davanti a uno sbigottito giornalista: “Stiamo giocando da così tanto tempo che non mi ricordo se sono Isner o Mahut”.
John si assesta ormai da anni tra i primi 30 della classifica mondiale, con un picco al numero 9 raggiunto ad aprile 2016, e rappresenta la punta del tennis americano con una umiltà e serietà davvero impeccabili. Lui sa che arrivare fin lì è stata dura. Dopo aver fatto così bene in quattro anni di università, non sempre il passaggio tra i professionisti è liscio: nel suo caso, dopo un inizio col botto che lo portò alla posizione 106 a fine 2007, solo pochi mesi dopo essere uscito dall’università, passò un anno meno felice in cui finì per assestarsi alla posizione numero 144, con la motivazione in calo e molti dubbi in saccoccia. Il provvidenziale cambio di coach nella persona di Craig Boynton e la Saddlebrook Academy, per sua stessa ammissione, furono una manna dal cielo. Boynton cominciò a farlo lavorare fisicamente come nessuno aveva mai fatto in passato, e Isner perse peso e mise su quella importante massa muscolare che gli permise di mantenere continuità al servizio e negli spostamenti, che allora ancora gli mancavano. A fine anno era numero 34 del mondo con i primi 20 in vista.
Il resto è storia: Isner detiene al momento 10 titoli ATP, ha disputato 3 finali di tornei Masters e ha raggiunto i quarti di finale agli US Open del 2010. Ha battuto giocatori come Federer, Djokovic e Roddick e ha portato i suoi Stati Uniti alla semifinale di Coppa Davis nel 2012. Adesso ha 32 anni ma è ancora in una forma invidiabile e, statene certi, lo rivedremo a breve nelle fasi finali di tornei importanti. Del resto il carattere è forte, l’attitudine è corretta, e alla fine: “Non si sta così male a girare per il circuito senza gente che ti insulta ogni volta che ti lanci la palla”.
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