di Alessandro Mastroluca
Oops, he did it again? Malek Jaziri si è ritirato dopo aver vinto il primo set contro Denis Istomin a Montpellier. È un forfait che ha attirato da subito l’attenzione e che, come rivelava già subito dopo il match Matteo Veneri per Youtennis, è oggetto di un’indagine dell’ATP. Perché Jaziri al prossimo turno avrebbe dovuto affrontare l’israeliano Dudi Sela.
Un anno e mezzo fa, nell’ottobre 2013, Jaziri era stato costretto dalla federazione tunisina a ritirarsi dal challenger di Tashkent prima del match contro Amir Weintraub, che pure era suo compagno di squadra nella serie A francese (giocavano entrambi per il Sarcelles) perché il governo non ha rapporti diplomatici con Israele e vieta anche gli incontri sportivi. “”Malek ha ricevuto un’email dalla federazione in cui dicevano che avevano incontrato rappresentanti del ministro dello sport e gli ordinavano di non giocare questa partita” spiegava allora il fratello. Una richiesta che è costata un anno di squalifica alla Tunisia dalle competizioni ITF.
Non è il primo boicottaggio anti-Israele né per Jaziri, né per un atleta tunisino, né per il mondo del tennis. A luglio 2013, c’era stato un episodio simile, nel circuito femminile, che però è anche il caso di boicottaggio meno chiaro. A Baku, lo scorso luglio, la tunisina Ons Jabeur si ritira a due game dalla vittoria, avanti 63 41 contro la qualificata polacca Magda Linette. Viene subito accusata di aver preso questa decisione per ragioni politiche, per evitare di affrontare l’israeliana Shahar Peer in semifinale, ma ha poi smentito questa versione. Ha spiegato di essersi ritirata per un infortunio alla caviglia. In effetti ha giocato quella partita con un tutore e a novembre dovrà sottoporsi a un intervento chirurgico alla caviglia. Nessun dubbio invece, sulle ragioni che hanno spinto l’Indonesia, la più vasta nazione musulmana al mondo, a non affrontare Israele in Fed Cup nel luglio 2006. Sarebbe stato il terzo confronto tra le due nazionali, ma l’Indonesia ha prima chiesto di spostare l’incontro in campo neutro e, al rifiuto dell’ITF, ha deciso di non partire per Ramat Hasharon nonostante il governo, pur in assenza di relazioni diplomatiche, avesse dato il preventivo assenso alla trasferta. “Stiamo assistendo a un’invasione militare di Israele” spiegava un portavoce dell’allora ministro degli esteri indonesiano, “non possiamo giocare”.
Erano infatti i primi giorni dell’operazione Piogge estive, iniziata il 28 giugno 2006. La situazione precipita quando un commando congiunto dell’ala militare di Hamas, dei Comitati Popolari di Resistenza e di Jaish al-Islam (Esercito dell’Islam), reagisce ai primi attacchi e assalta una postazione delle Forze di difesa israeliane nei pressi di Kerem Shalom. Muoiono tre miliziani palestinesi e due soldati israeliani. Un altro, Gilad Shalit, viene rapito e i miliziani per il suo rilascio chiedono la liberazione di tutte le prigioniere e tutti i prigionieri sotto i 18 anni. Ma l’allora primo ministro israeliano, Ehud Olmert, opta per la linea della fermezza: “Noi non negoziamo coi terroristi”. Né sulle ragioni dell’abbandono dell’iraniano Mohammed Mohazebnia, che in un Future in Kenya del 2009 si rifiuta di affrontare Tomer Hodorov, che poi raggiungerà la finale in doppio.
L’Iran resta su posizioni antitetiche al governo israeliano, che nello sport si sono tradotte in boicottaggi numerosi e in molti casi eclatanti, come il rifiuto del campione olimpico di Atene di judo, Arash Miresmaeili, di combattere contro l’israeliano Ehud Vaks. La Tunisia, al contrario, negli ultimi anni, almeno fino all’esplosione delle primavere arabe, aveva tentato un riavvicinamento, la riapertura di un canale diplomatico. Ma i boicottaggi sportivi non si sono fermati. Anzi.
Nel 2008, in un torneo giovanile di scherma, Marok Hatoel avrebbe dovuto affrontare un avversario tunisino, che però aspettava un permesso ufficiale per poter salire in pedana. Ma la Federazione e il governo gli ordinano di non gareggiare. Hatoel si ritroverà nella stessa situazione due anni dopo, contro avversari iraniani che si rifiutano di competere. E nel 2011, ai Mondiali di Catania, il fiorettista iraniano Sayyad Ghambari Hamad si è ritrovato nel girone di qualificazione l’israeliano Tomer Or e si è ritirato senza tirare con nessuno degli avversari. Sempre nella stessa edizione, la Federazione ha chiesto alla tunisina Sarra Besbes, che pure non è musulmana e prima della manifestazione si era allenata a lungo a Parigi con l’azzurra Nathalie Moellhausen, di non affrontare l’israeliana Noam Mills nella fase a gironi della spada femminile. Besbes, che sarebbe stata squalificata se non si fosse presentata, è salita in pedana ma è rimasta ferma; lo 0-5 l’ha costretta poi ad affrontare un’avversaria più forte, la cinese Li Na, da cui perderà uscendo dal torneo. Besbes e Mills si erano affrontate al Mondiale anche l’anno prima, ma nella fase a eliminazione diretta, e allora la richiesta della federazione tunisina non ebbe effetto.
Ma il caso più clamoroso, che spiega le derive, le esagerazioni cui lo sport può arrivare quando le ragioni di Stato lo attraversano, è dell’estate 2012. Ai Mondiali scolastici di scacchi in Romania, Muhhammad Hamida, un bambino tunisino di dieci anni, si rifiuta di affrontare un bambino israeliano. I media islamici subito interpretano il suo gesto come una forma di protesta contro la normalizzazione dei rapporti con Israele, come una forma di sostegno alla causa palestinese. Il ministro dello sport e della gioventù di Gaza, Ahmed Machisan, ha subito lodato “la manifestazione di coraggio” di Hamida.
La mancanza di relazioni diplomatiche con Israele ha causato anche gli attacchi dei tifosi alla leggenda marocchina Younes El Aynaoui, simbolo nazionale di fede musulmana, che dal 2013 collabora con gli Israeli Tennis Centers, sperando nel suo piccolo di porre le basi per una maggiore cooperazione tra Marocco e Israele. Per i tifosi di El Aynaoui, però, non sono ancora del tutto superati i tempi in cui un marocchino che girava per Tel Aviv o per Al Qods (il nome arabo di Gerusalemme) era immediatamente etichettato come un agente del Mossad, o un traditore della causa palestinese. Tempi in cui la normalizzazione dei rapporti con “l’entità sionista” era vista come una colpa, un peccato.
Tutte storie, queste, che ripropongono uno stesso problema, una stessa domanda. È la domanda che Anita De Frantz, allora atleta olimpica statunitense, pose al presidente Carter che aveva imposto alle nazionali Usa il boicottaggio alle Olimpiadi di Mosca in protesta contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan. “Potete dirmi se almeno una vita sarà salvata se noi resteremo a casa?”. Nè Carter, né gli atleti che oggi rifiutano di affrontare avversari israeliani, hanno ancora trovato una risposta.
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