Alla fine dello scorso anno Pablo Carreño decise di rompere il sodalizio con Javier Duarte per passare a formar parte della scuderia dell’accademia “Equelite” di Juan Carlos Ferrero, seguito da Samuel López (ex coach di Almagro) e da César Fábregas. Navigava allora intorno alla settantesima posizione del ranking e ricordo che in una intervista aveva detto che il suo obiettivo per il 2016 era entrare nei primi trenta. Bingo! L’obiettivo, certo difficile ma non scriteriato, è stato centrato con la precisione di un orologio svizzero, soprattutto grazie alle sue prime finali a livello ATP, con un bilancio di due sconfitte, a Sao Paulo (perso da Pablo Cuevas) ed Estoril (perso da Almagro) e due vittorie, a Winston-Salem (su Bautista) e Mosca (su Fognini). L’impressione è quella di un percorso solido, ben gestito, con ambizione ed umiltà, lavoro sodo e determinazione. Ma la storia tennistica del giocatore spagnolo, come molti di voi ricorderanno, è stata piuttosto accidentata ed ha subito nel 2012 una prolungata interruzione per un’ernia discale che ha rischiato di metterne a repentaglio carriera e sogni di gloria.
Pablo è nato 25 anni fa a Gijón, nelle Asturie, una delle regioni più belle della Spagna, una sorta di Irlanda iberica in cui le montagne del Parque Natural de los picos de Europa sembrano tuffarsi nel mare. Come la maggior parte dei giovani spagnoli che vogliono tentare la strada del tennis professionistico, a quindici anni ha deciso di emigrare a Barcellona e le cose sono subito andate a gonfie vele, con ottimi risultati a livello juniores (numero 6 del mondo nel 2009) e un passaggio al professionismo abbastanza indolore, che lo ha portato a vent’anni nella Top 150. Poi, appunto, i problemi fisici citati e, nel 2012, un intervento chirurgico che lo ho tenuto fuori dai campi per quasi tutto l’anno, facendolo scivolare oltre la 700ª posizione.
Una volta rimesso in sesto fisicamente, ha dovuto ripartire quasi da zero, ed il vero momento chiave della sua crescita risiede proprio nel modo in cui ha gestito quel suo ritorno, un delicato percorso di ricostruzione in cui ha avuto la fortuna di avere al suo fianco un coach come “Dudu” Duarte, con un’esperienza ed un curriculum che pochi possono vantare. Insieme hanno ricominciato, con ambizione e con umiltà, ripartendo dai piccoli teatri di provincia, ma con la convinzione di poter recitare nei grandi scenari. Come lo stesso Pablo racconta, nel 2013 è passato da giocare le qualificazioni di un Future in Turchia (senza arbitro) a giocare contro Federer sul centrale del Roland Garros! Una stagione incredibile, con qualcosa tipo 100 vittorie in una trentina di tornei, con ben 11 titoli di cui 7 Futures (oltre una manciata di finali) e 4 Challenger; una scalata mostruosa di più di 600 posizioni che gli ha fatto chiudere l’anno al numero 64, con i meritati onori del’ATP che gli ha concesso in quell’occasione il riconoscimento al “Most Improved Player of the Year”.
L’exploit del 2013 non è stato un fuoco di paglia, è stato anzi l’approdo ad un livello dal quale Carreño non è sceso, ma sul quale si è stabilizzato nelle due stagioni successive, ricche di buoni risultati soprattutto nel circuito Challenger, con cinque titoli fra 2014 e 2015. Poi, come si diceva prima, il cambio di coach insieme alla voglia di un nuovo salto di qualità, pienamente raggiunto in questo fantastico 2016, che lo ha visto tra l’altro fra i protagonisti anche in doppio. Anche in questa specialità un posto fra i primi 30 del mondo due titoli (Quito e Pechino), e ben quattro finali, fra cui nientemeno che quella degli Us Open in coppia con Guillermo García-López.
Chi ha toccato con mano il momento magico di Pablo Carreño è stato il nostro Fognini, sconfitto nella finale di Mosca. Un match combattuto in cui Fabio, dopo aver vinto il primo set, si è smarrito di fronte alla solidità dello spagnolo, tra l’altro “miracolato” dopo essersi accasciato a terra per un crampo alla gamba, come ha avuto modo di sottolineare ironicamente il giocatore italiano durante la premiazione. Una vittoria bissata pochi giorni dopo (questa volta senza storia e in meno di un’ora) nel Master 1000 di Parigi, ed in cui Carreño è stato poi estromesso nel turno successivo da Raonic, chiudendo così di fatto la sua brillante stagione.
Il suo salto di qualità sembra solido e sarà verosimilmente duraturo, anche se credo sia molto vicino al suo limite. In un momento di delicata transizione, con un’intera generazione in odore di pensionamento, un Nadal che stenta a tornare al top e la mancanza di seri rincalzi, forse Carreño e Bautista (anche lui tra l’altro con quattro finali e due vittorie Atp) hanno rappresentato la realtà più consistente del tennis iberico del 2016. Ed entrambi sono anche in qualche modo accomunati da alcune caratteristiche quali la velocità, la solidità mentale e l’aggressività nel gioco da fondocampo, il che li allontana dal cliché del terraiolo iberico e li rende giocatori polivalenti, specialmente pericolosi sul veloce, proprio la superficie che li ha visti trionfare nel corso dell’anno.
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