Per chi l’ha visto e per chi non c’era. Omar, quel giorno lì, una sua chimera. E l’ha raggiunta. Ha vinto il suo primo torneo, ha rimontato Lendl a Rotterdam, ha iniziato il biennio magico, quei giorni di gloria frenati dall’epicondilite prima dell’ultimo acuto, dell’ultimo giro di giostra in Davis a Pesaro contro Moya.
Nell’estate del 1990, Camporese si è allenato per qualche mese con Eduardo Infantino. La collaborazione durerà solo qualche mese, poi “turbodiritto” si farà seguire part-time da Riccardo Piatti alle Pleiadi di Torino, ma restituisce un giocatore reattivo, veloce, capace di giocare quello che per 18 anni rimarrà il match più lungo nella storia degli Slam. Per qualificarsi per la prima volta ai quarti degli Australian Open, Boris Becker deve lottare 5 ore e 11 minuti contro l’azzurro. Camporese cede i primi due set al tiebreak, ma Bum Bum fa solo 10 in tutto il terzo set: 6-0 Omar, che prova nuove soluzioni tattiche e inizia a seguire a rete il rovescio in back. Nel nono game, trova il break che scrive la storia. Il quinto set segue i servizi per 20 game. Sull’11-10, Becker ha tre match point con il servizio a disposizione. “Non credo di aver tirato nemmeno un colpo davvero buono in tutto il set” ha detto Omar a fine partita, “ma in quel momento mi sono detto ‘proviamo’. Sono arrivate cinque risposte fantastiche”. Nuovo break di Becker, 12-11, nuovo controbreak, 12-12. Camporese sale 40-0, ma la sua partita finisce qui. Quando si stringono la mano a rete, Becker alza anche il braccio dell’azzurro, che ha vinto più game, per rispondere alla standing ovation del pubblico.
Diventano amici, e a Stoccarda si ritrovano in Coppa Davis. Per Omar, che tiene “el cabezòn” come Sivori, idolo del padre cui deve il nome, la Davis ha sempre avuto un significato speciale. Già dal giorno dell’esordio, a Malmoe, il 3 febbraio 1989. Si presenta in campo con la racchetta di McEnroe, la stessa con cui Steffi Graf aveva appena fatto il Grande Slam. E con quel filo rosso ideale che unisce Fraulein Forehand al campione del “turbo-diritto”, batte Pernfors. “In Australia Becker all’ inizio ha fatto lo sbaglio di sottovalutarmi. Per lui ero uno dei tanti sconosciuti. Non credo che ripeterà lo stesso errore” commenta alla vigilia. Non sarà così: Camporese si fa rimontare dopo aver vinto i primi due set. Gli errori li ripeterà solo il giudice di sedia Malcom Huntington, decisamente non all’altezza. Nel terzo set Panatta e Camporese si infuriano, soprattutto per una seconda fatta ripetere a Becker, evitandogli così un doppio fallo che avrebbe dato il break all’azzurro. Perfino il tedesco protesta, si arrampica sul seggiolone per urlargli il suo disappunto e si rivolge alla tribuna autorità: “Mandate via quest’uomo, è un incapace!”. Nella pausa del terzo set Huntington viene sostituito da Bruno Rebeuh (lo stesso che quattro anni dopo sarà schiaffeggiato dalla moglie di Tarango a Wimbledon).
Poi perde con Nargiso a Milano, con l’ombra di Wilander a Bruxelles e con Edberg, ancora a Stoccarda. A Rotterdam è numero 42 del mondo. Supera il tedesco Eric Jelen 62 26 62, l’austriaco Alex Antonitsch 64 63 e il ceco Karel Novacek 64 75. Soffre in semifinale con Paul Haarhuis, che a Mosca pochi mesi prima, a novembre del 1990, aveva vinto il primo dei suoi 54 titoli in doppio (ha completato il career grand slam in coppia con Eltingh). È una battaglia che si chiude solo al tiebreak del terzo set, 67 62 76. Alla seconda finale ATP, dopo quella persa nel 1990 da Perez Roldan a San Marino, Camporese sfida Ivan Lendl. A quasi 31 anni, ha faticato non poco nel primo set contro i rovesci slice dello svedese Anders Jarryd (75 64), che due anni dopo, da numero 156 del mondo, sarà la prima wild card nell’albo d’oro del torneo di Rotterdam. Ma nonostante sia in fase calante, il cecoslovacco che ha cambiato la storia del tennis moderno arriva dalla finale dell’Australian Open, persa da Becker, e da una serie di 14 vittorie consecutive: ha conquistato il titolo a Philadelphia e a Memphis, dove ha battuto Pete Sampras, che a casa di Lendl ha preparato il trionfo a Flushing Meadows del 1990, e Michael Stich.
Camporese perde subito il servizio nel primo game del match. È un break decisivo, perché l’azzurro si scioglie, ma Lendl non gli concede opportunità in risposta. Sul 5-3 15-40, Omar estrae una prima vincente per salvare il primo set point, ma il 6-3 è rimandato solo di un punto.
Camporese però sale ancora, gioca alla pari con Lendl. Il servizio funziona, e i turni di battuta filano via con autorità. Il dritto viaggia pesante, e si arriva al 4-4 con due ace di fila. Omar gioca un game splendido che gli vale il break e la chance di servire per il terzo set. Lendl, però, non è più il giocatore timido che ha perso le prime quattro finali Slam, è una macchina da vittoria con uno spirito competitivo ineguagliato: controbreak, preludio al tiebreak. Qui Lendl sbaglia qualche colpo di troppo, Omar si prende gli applausi dell’Ahoy Sports Palace, il quinto stadio tennistico più grande del mondo, prima per un gran rovescio incrociato, poi per il dritto strettissimo in cross con cui converte il set point. Il punto migliore nel momento più importante della sua partita.
Lendl è furioso con il giudice di sedia Richard Ings, che da piccolo voleva diventare calciatore ma non era abbastanza bravo così ha iniziato a fare l’arbitro di tennis dopo aver risposto a un annuncio e a vent’anni già arbitrava Lendl in semifinale all’Australian Open contro Edberg. La rabbia non gli toglie il controllo sulla partita, e il numero 3 del mondo è subito avanti di un break. Un vantaggio che difende fino al 5-4, quando va a servire per il match. Un ace sul 30 pari lo porta a un solo punto dalla vittoria, ma non è mai finita finché non è finita. Manca un lungolinea di rovescio sul primo match point e una volée di dritto sul successivo. Salva una prima palla break, ma non la seconda: ancora 5-5, ancora preludio al tiebreak.
Lendl, che pure trovava grande “soddisfazione a vincere il trofeo battendo il favorito di casa, con 20000 persone che ti tifavano contro”, protesta per l’indisciplina degli 8 mila spettatori. Camporese però non si distrae. Vola 6-4, sente l’occasione che sta per venire, e non se la fa sfuggire. Il lob sul match point è letale, un esempio di geometrica eleganza che ricade a pochi centimetri alla riga. È un trionfo.
Il resto è storia. È il secondo titolo a Milano, nel 1992, è la Coppa Davis a Bolzano contro la Spagna, è la palude di Maceiò, è il gomito del tennista. È l’ultimo giro di giostra a Pesaro, nell’arena inaugurata con Pavarotti che cantava Vincerò. Ma la prima volta non si scorda mai.
in suo favore, ed uno splendido lob che precipita alle spalle di Lendl a pochi centimetri dalla linea di fondo gli regala la vittoria! Ha vinto il torneo di Rotterdam, è il giorno più bello della sua carriera. “Mi sembra che io stia sognando” dirà poco dopo. A questo prestigioso titolo si affiancherà l’anno dopo, nel 1992, il titolo di Milano indoor. Toccherà per breve tempo la diciottessima posizione mondiale. La sua carriera non proseguirà a questi livelli, ma Omar avrà ancora momenti di ispirazione e ci regalerà qualche exploit, specie in Coppa Davis, in quei suoi giorni e momenti in cui soprattutto sui tappeti indoor sapeva essere irresistibile.
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