Djokovic oscura Djokovic, il modo adombra il risultato. Il serbo trionfa a Miami, ma su social network, forum e community di tifosi si parla quasi solo dell’invito, non proprio stilnovistico, rivolto verso il pubblico, che fa apparire il Fognini che sbrocca, e cito il twit di Federico Ferrero, un fine esegeta dantesco. E a proposito di esegeti, diversi utenti serbi su Menstennisforums hanno sottolineato come l’epiteto che accompagna l’invito, “majmune”, scimmia, nella lingua di Nole non ha implicazioni o connotati razzisti. Ma al di là delle implicazioni e della recidività del numero 1 del mondo, che già se l’era presa nello stesso modo contro i tifosi a Madrid 2013 al termine del secondo set contro Dimitrov, partita che poi perse.
Dominatore. Djokovic rimane comunque il padrone del 2015. Nonostante le incertezze sotto rete e nei colpi sopra la testa, il serbo ha trionfato a Melbourne, Indian Wells e Miami, e con l’incognita-Nadal, battuto per la seconda volta consecutiva in carriera da Verdasco, sarà ancora l’uomo da battere all’apertura della stagione sulla terra. Con la settima vittoria consecutiva contro lo scozzese, che quando il gioco si è fatto duro, subito il break in avvio di terzo set ha semplicemente smesso di giocare, Djokovic è entrato nella piccola grande storia del tennis. Ha conquistato il 22mo Masters 1000, il quinto titolo a Miami, è diventato il primo di sempre a completare il back-to-back con Indian Wells per tre volte, e l’unico con Federer a riuscirci per due anni di fila.
ll futuro è di Thiem. Il secondo Masters 1000 della stagione ha regalato a John Isner la prima semifinale ATP dopo quasi un anno, dal torneo di Atlanta dello scorso giugno, e testimoniato di nuovo, se mai ce ne fosse bisogno, la crisi del tennis maschile made in Usa. Segnali migliori, invece, arrivano dalle “young guns”, su tutti Dominic Thiem, scelto da Federer come sparring partner per preparare la stagione sul rosso. In off-season, l’austriaco ha passato 17 giorni di formazione militare nella caserma di Zwölfaxing, vicino Vienna, che hanno avuto, a suo dire, un effetto negativo sulla preparazione per il 2015.
Serena e Halep su tutte. Nel complesso, il torneo femminile a Miami ha offerto più temi, più contenuti, più partite di livello. Le 700 vittorie in carriera di Serena Williams, una serie iniziata nel 1997, nelle qualificazioni dell’East West Bank Classic a Los Angeles 61 64 su Amanda Basica), portano la regina del tennis nella ristretta élite delle leggende: solo Martina Navratilova, Chris Evert (le uniche con più di 1000 partite vinte), Steffi Graf, Virginia Wade, Arantxa Sanchez, Lindsay Davenport e Conchita Martinez hanno raggiunto questo traguardo. Se la finale con Carla Suarez Navarro, prima spagnola a entrare in top-10 dai tempi di Arantxa Sanchez, non ha avuto prevedibilmente storia, la semifinale con Simona Halep si candida al premio di partita dell’anno.
Il lato oscuro del tifo. La metamorfosi tecnica, fisica, tattica, della rumena non può essere considerata una sorpresa. Il suo tennis di geometrica potenza, l’anticipo, la capacità di leggere le varie situazioni in campo ne fanno con pieno merito la numero 1 della Race. A Miami, contro di lei sono cadute Camila Giorgi e Flavia Pennetta. Due sconfitte dall’andamento e dal punteggio sostanzialmente simili, che però tra i tifosi italiani hanno suscitato reazioni molto distanti: pessima Camila, ottima Flavia, per sintetizzare l’estremizzazione delle posizioni. C’è da stupirsi, ma fino a un certo punto. Il tifo è di per sé giudizio obnubilato, partigianeria, passione, è il cuore che ha le sue ragioni che la ragione non conosce. E porta a considerazioni figlie delle aspirazioni, delle ambizioni, a giudizi semplicistici che spesso non tengono in conto l’avversario, le condizioni di gioco, le variabili: Camila dovrebbe essere top-10 e dunque deve battere Halep, se non lo fa è una delusione, per sintetizzare; da Flavia puoi aspettarti al massimo che faccia match pari, e se lo fa va già bene così. Peccato che la deprivazione relativa, la distanza tra quel che vorremmo che fosse e quel che è, non sia mai un parametro di giudizio efficace per valutare le prestazioni sportive, soprattutto in uno sport individuale, esistenziale, come il tennis, fatto di sottigliezze e sfumature, di accenti e di presentimenti.
Gli eroi del mondo di mezzo. Per chiudere, la settimana Challenger ha offerto più di una perla. A Le Gosier, vince Bemelmans (quarto titolo Challenger stagionale), che sale a 15 partite vinte nel circuito, una in meno del primatista Benoit Paire che ha giocato, e vinto, con Hernych, una delle partite più surreali del torneo, e non solo. 15 break totali, 40 palle break complessivi, gratuiti che (conteggio manuale) hanno superato le tre cifre, luce che all’improvviso si spegne, e intendo i riflettori non la concentrazione del francese, e un tiebreak del terzo chiuso 11-9 con il ceco avanti 64 e furioso perché il suo dritto sul primo match point viene chiamato fuori. Memorabile anche la prima finale Challenger in carriera, al 51mo torneo, per James McGee, terzo irlandese a riuscirci dopo Niland e Sorensen, battuto a San Luis de Potosì da Pella, che ha festeggiato in settimana le 100 partite vinte. Da oggi, occhi su Napoli dove si parrà la nobilitate di Quinzi e Donati.
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