di Sergio Pastena
La Davis è una bestia strana: a volte capitano sfide del World Group che hanno il fascino di una sogliola bollita sia dal punto di vista tecnico che emotivo. Magari una squadra promossa per miracolo deve rinunciare all’unico singolarista decente per infortunio e si trova in trasferta contro una Spagna che per sadismo schiera Nadal e Ferrer dando vita a un massacro che al confronto la Strage di San Valentino è il raduno mondiale dei fan degli Orsetti del Cuore.
Poi, invece, butti un occhio al Group II, la serie C della Davis, e ti trovi storie che nessuno racconta e che meriterebbero di essere raccontate. Con l’immaginazione, ovviamente, perché salvo i rari casi di appassionati che piazzano una webcam di nascosto e la sparano sul web, per il resto se vuoi vedere certi match come minimo devi andare di persona attraversando l’oceano. Allora immaginiamole, queste storie, prendendone tre dell’ultima tornata di incontri. Una per continente, che la par condicio va sempre di moda.
Il miracolo di San Michele
Con buona pace del nome indubbiamente figo, il National Tennis Centre di St.Michael, alle Barbados, somiglia grosso modo al Sandpits Tennis Club che vedo dalla finestra dell’ufficio a Gibilterra. Tre campetti disposti a mò di tetris, circondati da vegetazione discreta, senza spalti, creati più per il sollazzo dei benestanti locali che per reali esigenze agonistiche.
Eppure San Michele qualche potere deve averlo anche lì, se è vero che quei campetti hanno visto il coronamento di un’impresa imprevista e imprevedibile da parte della squadra di casa. Fateci fare i Nostradamus della situazione: l’avevamo detto nel 2011 parlando di Mojito e Drop Shot che le Barbados tanto male non sembravano. Darian King aveva talento, Haydn Lewis esperienza, insomma non erano da buttar via se confrontati alle altre nazioni caraibiche.
All’epoca erano reduci da un doppio salto: prima nel 2010 la promozione dal Group IV, che oggi nelle Americhe non esiste più, battendo Trinidad, Isole Vergini, Honduras e Panama. Roba forte. Poi l’exploit nel Group III, in Bolivia: colpo contro i padroni di casa, round robin passato e promozione da secondi con l’ininfluente sconfitta contro il Guatemala. Il Group I, però, quello proprio no: a certi livelli inizi ad incontrare Messico, El Salvador, persino Cile. Troppo forti per i barbadiani, che infatti contro le prime due nel 2012 han portato a casa un punto su dieci e giusto perché l’El Salvador aveva messo in campo tale Alejandro Gonzalez che molto poco aveva a che vedere con il suo omonimo colombiano.
E il Cile? Beh, il Cile l’hanno incocciato al primo turno quest’anno, dopo essersi salvati contro Porto Rico, e non sembrava fattibile nonostante le assenze. Non sembrava, prima che Darian King vivesse la sua epifania tennistica stendendo Lama e Garin in singolare e portando a casa il doppio col suo sodale Haydn. Secondo turno e altri mojito che volano, in attesa di ricevere un’altra stesa memorabile da El Salvador.
Stesa che non c’è stata. A San Michele Darian King ha annichilito Rafael Arevalo, mentre suo fratello Marcelo ha pareggiato con Lewis soffrendo. Quindi il doppio, coi salvadoregni costretti al ritiro durante il terzo set. E l’ultimo punto, leggendario, portato a casa da King contro il più forte degli “Arevalos”. Da oggi sarà King di nome e di fatto e a settembre ci sarà da abbattere un altro tabù: sempre il Messico, stavolta però a San Michele. Sognando di far volare mojito anche nel Group I.
Il più singolare dei singolari
“Aisam, te la senti?”.
Non è dato saperlo a meno di non essere a Manila, ma supponiamo sia andata così. Supponiamo che Mohammed Khalid, capitano della Davis pakistana e vecchia gloria nazionale (che tennisticamente lì vuol dire essere entrato fugacemente nei primi mille vent’anni fa) sia essere andato dal 34enne Aisam-Ul-Haq Qureshi chiedendogli il sacrificio.
Qureshi non è un fesso, né nel tennis né nella vita: abbastanza scaltro da specializzarsi anziché rincorrere un platonico posto nei Top 100 in singolare, scelta che gli è valsa dieci titoli, un posto da Top 10 e una finale agli Us Open in doppio. Abbastanza intelligente da capire che il tennis abbatte i confini e dare vita con Bopanna al leggendario Indo-Pak Express. Uno da stimare e che certo non si può accusare di scarso patriottismo, visto che ogni tanto non disdegna di giocare qualche singolare in Davis per la sua nazione.
34 anni, però, non sono pochi e finisce che giochi per lasciare un punto in Sri Lanka a tale Harshana Godamanna. No, meglio evitarle certe figure, decisamente: alla tua età e col tuo curriculum…
Poi capita che vai nelle Filippine in cerca di una sconfitta onorevole, sei sotto 2-0 nella prima giornata, porti a casa il preventivato punto della bandiera in doppio e avviene l’impensabile. I padroni di casa schierano l’impalpabile Johnny Arcilla invece di Ruben Gonzales, unico col ranking, presumibilmente per un infortunio e per l’indisponibilità di quello che, de facto, è il miglior tennista filippino: Treat Conrad Huey, anche lui doppista di rango (due titoli e best ranking al 21) e anche lui ex avversario del terribile Godamanna, battuto in quattro set.
Treat in inglese vuol dire minaccia, ma la minaccia di farlo giocare non si concretizza. E Aisam ci pensa: il Pakistan non va nel Group I da tanto, sono passati nove anni da quel leggendario spareggio in Cile per il World Group, senza un set vinto e con un solo parziale finito al tie-break. Da una parte c’era lui, Qureshi, dall’altra un Massu ancora in forma. E facciamolo sto sforzo, via! Mal che vada si perde.
Oppure non si perde, visto che Qureshi ha steso il malcapitato Tierro in quattro set, dando al Pakistan la rinnovata ebbrezza di uno spareggio con in gioco la serie B. Sarà difficile, in Thailandia, molto difficile: gli avversari vogliono vendicare la clamorosa sconfitta di Lahore nel 2005, quando ancora lui, Qureshi, fece un “one man show” superando Srichaphan e Udomchoke. E ancora una volta a Khalid toccherà dire “Te la senti, Aisam?”.
Il Ribalt(ic)one
Posti strani, i cosiddetti paesi baltici, non solo sportivamente. Tutti li mettono nello stesso calderone per questioni pratiche: Lituania, Lettonia, Estonia, tre staterelli vicini a metà tra la Scandinavia e la Madre Russia. Eppure, a ben guardare, tra loro c’entrano ben poco fin dalle lingue: il lettone è una lingua germanica, il lituano mischia influenze latine e greche, l’estone è ugro-finnico inside.
Insomma, insieme non possono starci, cosa che li condanna a una lunga serie di “Vorrei ma non posso” da un punto di vista sportivo. La Lituania è forte nel basket, ma gli manca la lira per fare il milione: un NBA come Biedrins gli farebbe comodo, ma è lettone. La Lettonia è andata agli Europei, la Lituania li ha sfiorati, ma schieravano in porta pippe immonde: uno come Mart Poom con la sua esperienza in Premier League sarebbe servito, ma era estone. La nazionale di pallavolo estone una volta è arrivata nella fase finale degli Europei e ha fatto soffrire i fortissimi bulgari: gli mancava lo spunto al servizio, che magari sarebbe potuto arrivare dal cannone di Janis Peda. Che però è lettone.
No, proprio non si incontrano, neanche nel tennis. La Lettonia, ad esempio, ha un Gulbis ma se come secondo singolarista (con tutto il rispetto) schierasse un carrarmato del Risiko invece di Juska avrebbe più chance di fare punti dal Group I in su. Un secondo singolarista decente ce l’ha la Lituania, ma manca la star, così come un estone come Zopp farebbe comodo ai lettoni. La Lituania, ad ogni modo, è oggettivamente una squadra da serie B e non da serie C con Berankis e Grigelis. L’ha dimostrato nel 2010 in Gran Bretagna, ma se poi ti vengono meno i big nelle sfide chiave e ti fai buttare nel Group III dal Marocco schierando Mugevicius e Sakinis oppure mandi gli stessi a beccare schiaffi in Portogallo nei quarti del Group II, allora ovvio che in serie C ci resti a marcire.
Tranne che… tranne che non riesci ad essere al completo in Sud Africa per la sfida più difficile. Due squadre totalmente differenti: i padroni di casa senza Anderson, con quattro convocati del decennio ’80 capitanati dal maturissimo De Voest. Gli ospiti con quattro 90s alla ricerca dell’impresa. Berankis sfonda Andersen, Grigelis lotta con De Voest ma perde con tre tie-break di mezzo. Parità e poi svantaggio, col doppio ai sudafricani. Impresa in mano a Berankis: se batte De Voest la bilancia passa a pendere dall’altra parte.
E Ricardas non perdona: De Voest sembra più antico del verde antico dei campi dell’Irene Club di Centurion, porta a casa un set ma Berankis chiude in quattro e passa il testimone a Grigelis. Dall’altra parte del campo Ryan Roelofse, ultima carta possibile tra i sudafricani, in bilico tra il desiderio di giocarsela e l’irrefrenabile voglia di finirla prima possibile. Grigelis vince in quattro, senza grossi patemi. Lo spareggio con la Bosnia sarà difficile, ma vedi mai che a sto giro non manchi la lira per fare il milione, una volta tanto.
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