di Andrea Martina
Nel manuale dell’intervistatore, specie se stai intervistando un ex campione del tennis, c’è una domanda evidenziata che deve essere fatta assolutamente: “nel tennis di oggi, vedi qualche tuo possibile erede o qualcuno che potrebbe vincere più di quanto hai vinto tu?”. Non importa come il giornalista decide di strutturare la domanda o in quale punto dell’intervista sceglie di inserirla. E’ una cosa che va fatta.
A quel punto il grande campione del passato può scegliere tra una risposta diplomatica o provocatoria, ma userà sempre un’espressione per spiegare quello che vuole dire: “il numero di incontri vinti” dal suo favorito. Perché vuole focalizzare l’attenzione sul numero di incontri vinti e non, magari, su un torneo dello Slam portato a casa? Perché preferisce il numero dei match vinti al numero dei tornei vinti?
Se vuoi fare la storia di questo sport ci sono due grossi problemi: la continuità e il convivere con le pressioni. E poi c’è una questione semplicemente matematica: per vincere uno Slam devi battere sette avversari, per gli altri tornei sono invece devi vincere cinque incontri, tutto ristretto in una o due settimane. Per enfatizzare questo aspetto si potrebbero riprendere le parole di Andre Agassi che definì una partita di tennis come “un match di pugilato con la rete in mezzo”. Tutto questo serve a spiegare come sia difficile confermarsi dopo un ottimo torneo o una stagione a livelli altissimi, ma alla base c’è sempre il numero delle volte che scendi in campo e vinci la tua partita.
È anche vero, però, che non tutti sono destinati a vincere più di 500 match in carriera. Molti frequentatori del circuito maggiore devono fare i conti con mesi in cui si beccano solo primi turni, sorteggi mortificanti, alternanza con tornei challenger di provincia e batoste varie dalle teste di serie: difficile trovare continuità in un quadro del genere.
Una strada molto sottovalutata che alcuni tennisti hanno scelto è quella di giocare nei tornei il singolo e il doppio. Una scelta che viene vista con diffidenza dalla maggioranza. Giocando anche il doppio hai la possibilità di prendere ritmo in un torneo o magari ritrovare la confidenza con alcuni colpi (soprattutto a rete e in risposta) che difficilmente puoi “aggiustare” nel corso di un match di singolare, inoltre la pressione di un match di doppio è sempre inferiore e meglio distribuita, per non parlare del fatto che per i giocatori di seconda fascia è un’entrata monetaria da non sottovalutare. Ovviamente, essendo un torneo che viaggia di pari passo al singolare, c’è il rischio di giocare 4 o 5 set al giorno e stare complessivamente in campo (allenamenti esclusi) per oltre tre ore, se come riferimento prendiamo i tornei 2 su 3. Con gli Slam, poi, la situazione fisica peggiora. Il circuito, però, sembra presentare alcuni casi in cui il doppio è diventata la medicina giusta.
Prendiamo il francese Roger-Vasselin, che da anni alternava tornei ATP a challenger e non riusciva mai ad entrare nei primi 60-70 del mondo. Sulle sue spalle c’era anche l’eredità del padre Christophe (nel 1983 numero 29 del mondo e semifinalista al Roland Garros) e la consapevolezza di non avere i numeri dei connazionali Gasquet o Simon. Da quando gioca in coppia con Benneteau la situazione sembra essere cambiata: quest’anno ha raggiunto la sua prima finale ATP di singolare a Chennai (perdendo contro un Wawrinka impossibile) e ha anche battuto Cilic in un 1000. Magari non raggiungerà il risultato del padre in singolare, ma potrà dire di aver vinto il Roland Garros nel doppio e di essere finalmente riuscito a stabilirsi nei primi 50 del mondo.
Anche il polacco Kubot può dire di aver trovato giovamento nel doppio: fino al 2009 la sua classifica gli consentiva al massimo di essere testa di serie nei challenger, poi dall’anno successivo con l’ingresso nella top 10 del doppio è arrivata la spinta alla sua carriera. Fino a pochi mesi fa era tranquillamente nei primi 100 del mondo e i risultati fatti registrare in questi anni sono di tutto rispetto, soprattutto con la vittoria su Almagro nel Roland Garros 2011 e quelle su Karlovic e Monfils qualche settimana più tardi a Wimbledon. In entrambi gli Slam arrivò in tabellone da qualificato. Poi nell’edizione 2013 di Wimbledon arrivò la ciliegina sulla torta con il quarto di finale “Made in Poland” perso contro Janowicz. Quest’anno ha cambiato il compagno di doppio e gioca insieme all’esperto svedese Lindstedt. L’inizio non poteva essere migliore: vittoria degli Australian Open 2014.
Oltre a queste due “normali” storie, non bisogna trascurare il beneficio tecnico dei colpi del doppio nel singolare. Questa frase può farci pensare subito ad un uomo: Radek Stepanek, artista della racchetta nonostante abbia le stesse difficoltà di Davydenko a trovare sponsor per ragioni estetiche. Il tennista ceco, dopo le magie di questi anni in Coppa Davis, si è reso protagonista di un’ottima stagione sull’erba dove ha fatto semifinale al Queen’s battendo Murray e ha fatto soffrire non poco a Wimbledon il vincitore Djokovic.
Ma il caso più recente è quello del giovane americano Sock: dopo la vittoria dello US Open junior e alcune buone comparsate nel circuito faticava a decollare. Quest’anno aveva fatto registrare solo tre quarti di finale ATP, poi a Wimbledon in coppia con il canadese Pospisil, vince a sorpresa il torneo battendo i gemelli Bryan in finale. Nei due tornei successivi, Newport e Atlanta, raggiunge due semifinali riuscendo a battere il numero 1 statunitense Isner. Al master di Toronto ha rischiato di fare il colpaccio contro il beniamino di casa Raonic cedendo al tie-break del terzo. E gli US Open sono praticamente alle porte. E se fosse il doppio la giusta medicina per prendere fiducia?
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