di Andrea Martina
In molti fanno finta di niente, i maggiori quotidiani sportivi scelgono di concedere solo qualche ritaglio nelle pagine di fondo, non ci sono più neanche quei bei dibattiti da novelli opinionisti nei circoli. Tutto sembra essersi improvvisamente addormentato.
Ma il tennis non è andato in vacanza.
Su una cosa, però, dobbiamo essere d’accordo: il virus della pallina gialla non colpisce tutti allo stesso modo. Una buona fetta di contagiati riscopre la bellezza del tennis solo quando a scomodarsi sono personaggi del calibro di Federer, Nadal e Djokovic. Altri preferiscono concentrare il loro tempo solo quando il gioco si fa duro e il Tour approda agli appuntamenti del circuito Slam o nei Master 1000, con la Coppa Davis che non attira più come una volta. Ma c’è un altro gruppo di persone costantemente affamate di tennis ad ogni latitudine, dalla Wilson di Federer alle vittorie di inizio stagione di Luca Vanni, dal talento di Safin dentro e fuori dal campo fino ai successi asiatici del nostro Luigi D’Agord. E chi conosce la storia di Luigi D’Agord può vantare un pedigree decisamente importante.
Il circuito in questo momento fa tappa per qualche settimana in Asia, continente sempre più in ascesa che ha deciso di investire pesantemente nel tennis. Nonostante alcuni top player continuino ad evitare più o meno ciclicamente questa tournée, lo spettacolo continua a non fermarsi e tra una settimana esatta andrà in scena il Master 1000 di Shanghai.
Queste settimane di tennis, che in qualche modo rappresentano un collante tra la Coppa Davis e la stagione indoor europea, spesso regalano vere e proprie sorprese da parte delle seconde linee che possono arricchire la propria bacheca e scalare qualche posizione, dato che per tutto il mese di ottobre i top 10, in vista della Masters Cup, lasceranno solo qualche briciola per strada.
Chi ha contratto il virus della pallina gialla nell’anima non può rimanere indifferente a tutto quello che succede sui campi asiatici. Tra wild card inaudite e tennisti che provano a mettere una pezza ad una stagione fallimentare c’è una storia, a tratti commovente, che bisogna necessariamente raccontare.
È quella di Julien Benneteau.
Chiunque abbia visto un suo allenamento, uno scambio dal vivo o ancora meglio un doppio è consapevole che si sta parlando di un gran bel giocatore. Discontinuo, ma capace di giocare davvero bene. Ieri il tabellone del centrale di Kuala Lumpur proiettava il seguente score: Final, Nishikori – Benneteau 7/6 6/4.
Fin qui non c’è nulla di strano, Nishikori è ormai diventato un gran bel giocatore e sul cemento si esprime al meglio. Per il francese c’è solo la magra consolazione di aver giocato una finale piuttosto buona che chiude una settimana comunque all’attivo. Il problema è che Benneteau non ha perso solo quella partita. Era la sua decima finale raggiunta in carriera nel circuito ATP e per la decima volta è uscito sconfitto inaugurando un triste record.
Dieci finali senza alzare mai la coppa più importante, metà di queste perse al terzo set. Pura statistica o serio problema da risolvere?
Premessa: Benneteau ha 33 anni e questa forse è la sua migliore stagione. Due semifinali raggiunte nei Master di Indian Wells e Cincinnati, una finale nel 250 di Kuala Lumpur, una finale in Coppa Davis da giocare a Dicembre e la vittoria in doppio al Roland Garros. Non è mai riuscito a vincere qualcosa di importante in singolare pur avendo una carriera ad alto livello ed ogni finale che gioca sembra essere l’ultima chiamata per sfatare questo tabù.
Se poi si va a guardare nel dettaglio si scopre come gli avversari affrontati in finale dal francese siano stati più o meno tutti alla sua portata: Garcia-Lopez (Benneteau era avanti 6/3 4/2), Llodra, Nieminen, Monaco (in una match che superò le 3 ore) e Sousa. Già, Sousa.
Quest’ultimo avversario fa costantemente visita nei sogni di Benneteau perché è stato il protagonista della sua più crudele sconfitta: lo scorso anno, sempre nel torneo di Kuala Lumpur, il portoghese Sousa si ritrovò da numero 77 del mondo a giocare la sua prima finale ATP e dall’altra parte trovò Julien che aveva già un passivo di 0-8 nelle finali. Tutto andava per il verso giusto, il francese conduceva 6/2 5/4 ed aveva un match point sul 30/40.
“Finalmente è fatta”, “ormai la maledizione è finita”, “era ora di vincere una finale e per di più così agevolmente”. Più o meno nella sua testa saranno passate queste frasi mentre si spostava sull’angolo sinistro del campo per rispondere.
Mentre pensava a queste cose il match point fu annullato dal servizio del portoghese che riuscì a portarsi sul 5/5 e a vincere il secondo set per 7/5 e il terzo 6/4 costringendo Benneteau all’ennesima medaglia d’argento. Per tre anni consecutivi in finale a Kuala Lumpur e per tre volte sconfitto.
Qualcuno potrà pensare che almeno in giovane età, quando gli avversari non erano sicuramente forti come Nishikori o Del Potro, Benneteau abbia portato a casa almeno una discreta quantità di titoli challenger e futures. Anche qui la storia sembra quasi ripetersi: quando aveva appena 20 anni raggiunse le sue uniche due finali nella categoria Futures e perse entrambe le volte, mentre nei challenger vanta un parziale di 3 tornei vinti e 4 finali perse. Se si tira una riga per la proverbiale somma si raggiunge questo risultato: 3 a 16. Arrivati a questo punto non è più statistica ma un serio problema da affrontare non su un campo da tennis o in una palestra, ma sul lettino di uno psicanalista.
È molto raro che succeda, ma ci sono delle volte in cui si può descrivere un tennista e tutta la sua carriera grazie ad una sola partita. Benneteau fa parte di questo ristretto club e il match è un terzo turno giocato sul centrale di Wimbledon nel 2012 e dall’altra parte c’è un ragazzo che, al contrario, è abituato a sollevare trofei: Federer.
Benneteau non doveva nemmeno giocarla quella partita. Solo pochi mesi prima nel torneo di Monte Carlo a seguito di una rovinosa caduta si fratturò il gomito, un problema serissimo per chi fa del tennis il proprio lavoro. Quell’infortunio lo costrinse ad un intervento e il successivo ritiro da tutti i tornei su terra rossa. Riuscì a fare qualche allenamento prima del Roland Garros dove vinse due partite, poi sull’erba del Queen’s e di Eastbourne raccolse davvero poco. Arrivò a giocarsi il match contro Federer quasi come un turista che si ritrova a palleggiare nello stadio più bello del mondo.
Dopo aver vinto a sorpresa i primi due set per 6/4 e 7/6 c’era chi iniziava a tremare, Federer non era stato bene e aveva accusato diversi fastidi alla schiena nei giorni precedenti (infatti giocò tutto il torneo con una maglia sotto alla sua immancabile polo). Il terzo set finì 6/2 per lo svizzero che tranquillizzò tutto il Centrale pronto a mettersi comodo per altri due set sicuramente in discesa. A quel punto Benneteau rischiò tutto e si mise a servire prime esterne a 190 km/h seguite da un’ottima copertura della rete. Avanti due set a uno il risultato era 6/5 Benneteau con Federer che serviva sul 15/30: due punti dal match, la vittoria più importante della sua vita. Ma si andò ai vantaggi e Benneteau fu per la quarta volta a due punti dal match. Federer acchiappò con le unghie il tiebreak. 5 pari. 6 pari. 8/6 per Federer e sconfitta in un quinto set senza storia.
Per sei volte era finito a soli due punti dal battere colui che sarebbe stato la settimana dopo il campione del torneo. Eppure lui si era sicuramente ricordato di quella volta a Parigi Bercy, nel 2009, dove ancora una volta si era ritrovato Federer che in quella settimana era il numero 1 del mondo. Fece l’impresa e lo sconfisse in tre set davanti al suo pubblico, eroe per un giorno, il match più importante della sua carriera.
Però di quel match si ricordano in pochi, è molto più probabile, quando si sente il suo nome, andare con la mente a quel Wimbledon 2012 per rivivere il sogno sfiorato, la giornata quasi perfetta. Benneteau è purtroppo anche questo.
In molti sono consapevoli che vincere un torneo, scrivere il proprio cognome su un albo d’oro o su una bacheca all’ingresso del club, sia un modo per rimanere nella storia. Ma c’è anche la storia di chi perde e quella di Benneteau meriterebbe un “ATP Honoris Causa”.
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