di Salvatore Greco
Ci sono una fase e una frase da cui secondo me dovrebbe partire ogni discorso sulla stagione 2014 di Roger Federer.
Più della finale di Wimbledon, più della vittoria a Shangai, più del recente torneo di Basilea vinto praticamente senza fatica, la fase è l’ATP 500 di Dubai, vinto da Federer a fine febbraio a spese di Tomas Berdych, primo trofeo dell’anno per lui. Più di qualsiasi dichiarazione ufficiale, intervista post-partita o commento ragionato, la frase è quella esclamata da Giorgio Spalluto, telecronista di Supertennis che commentò quel match assieme a Diego Nargiso, subito dopo il match point conquistato dallo svizzero: “l’uomo che aveva imboccato, per qualcuno, il viale del tramonto, stavolta ha incontrato traffico”.
Dagli Emirati il messaggio è chiaro, Federer c’è. Nonostante un inizio di stagione non esplosivo, nonostante alcuni errori impensabili per lui (a Dubai in finale sbagliò molte prime per un lancio di palla errato), Federer c’è e ci sarà.
Da lì in poi, infatti, ci sono stati grossi exploit (Cincinnati e Shangai tra le vittorie, Wimbledon e lo US Open tra i rimpianti) e clamorosi tonfi (Roma, Parigi) anche se questi va detto, sono avvenuti in presenza della superficie meno amata e in condizioni particolari, vedi alla voce gemelli, o contro avversari particolarmente on fire come il Gulbis visto al Roland Garros. Quello che conta di più è che, da Dubai in poi, è stato chiaro che il Federer del 2014 era un lontano parente di quello che giusto l’anno prima sembrava destinato a un’onorata pensione. Quello restituito dalla ricostituente cura Edberg è un Federer atleticamente impeccabile, di nuovo coraggioso a rete e chirurgico al momento di chiudere i punti. Tutte cose che sul cemento indoor, la superficie regina del finale di stagione, tornano utilissime e lo si è visto, tra le altre cose, nella semifinale di Shangai (quella, però, outdoor) contro Djokovic dove ha potuto chiudere un mirabile turno di servizio in 47 secondi netti di gioco.
Tutto ciò, unito al fatto che in questo momento le motivazioni per lui sono immense, come ha ben raccontato il nostro Andrea Martina qui riguardo al sogno certo non peregrino di tornare in vetta al ranking, rende Roger un candidato decisamente papabile alla vittoria finale del Master. Non sembrano distrarlo gli allenamenti su terra in vista della finale di Davis e testimoniati dallo stesso tennista con eloquenti foto di calzettoni sporchi del familiare mattone tritato, né sembrano pesargli i numerosi tornei giocati questo autunno. Si diceva a settembre che Federer avrebbe di certo saltato un torneo tra Shangai, Basilea e Bercy; troppo, si diceva, per un tennista della sua età in vista dell’appuntamento fondamentale con la Davis. Ebbene, ad oggi ha alzato il trofeo sia nel Masters 1000 cinese che nel torneo di casa cedendo, nelle due settimane, solo tre set e nel tabellone di Bercy il suo nome figura impenitente senza che si possa credere realistico che venga cancellato.
Al di là dei (leciti?) dubbi sulla tenuta atletica dello svizzero, non si può non osservare che Federer ha messo giù da Halle in poi un tennis di livello altissimo e ha giocato, da allora, trentanove partite perdendone solo tre (seppure importanti come la finale di Wimbledon, la finale di Montreal, la semifinale di New York). La sensazione sempre più netta è che Federer ora come ora sia in grado di vincere praticamente contro chiunque (tranne forse il miglior Nadal, ma il problema non si porrà per ovvi motivi entro il 2014) a patto di poter impostare da subito il proprio gioco e dettare i propri ritmi, cosa che gli consente anche di risparmiare energie preziose.
Anche se, per la verità, questo Roger Federer di energie –mentali soprattutto- sembra averne da vendere. La riconquista del numero uno del ranking è un obiettivo che va al di là del merito sportivo e, figuriamoci, economico. Piuttosto, ritornarci a 33 anni compiuti, e sfiorare o ritoccare il record del numero 1 più anziano detenuto ancora da Agassi, sarebbe un’altra personalissima sfida ai limiti dell’umano che lo svizzero vuole lanciare senza paura. Per questo arriverà al Master carico come una molla, ma anche provvisto della calma proverbiale dei veri campioni, quella flemma ineffabile che a Shangai ha mandato Djokovic ai matti.
Visto, insomma, il fuoco sacro che gli brucia dentro e il modo in cui arriveranno (o non arriveranno) a Londra i rivali, credere che Roger Federer chiuda in maniera grandiosa il suo 2014 è più che realistico a mio avviso. Certo, fanno notare in molti, è davvero poco probabile che dopo Shangai e Basilea, con Bercy in corso, si possa pensare alla vittoria nel Master e, chissà, alla Davis. Ma d’altro canto pare altrettanto poco probabile in una sola vita vincere 82 titoli ATP in carriera, 17 tornei del grande slam, e mettere al mondo due coppie di gemelli omozigoti. Al momento di porsi degli obiettivi, a casa Federer, credo valutino la legge dei grandi numeri con i dovuti distinguo.
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