di Federico Mariani
Qualcosa si è rotto, inutile negarlo. Qualcosa, nella testa prima e nel tennis poi, di Grigor Dimitrov si è arenato. Ieri sera nel match di secondo turno che lo vedeva opposto a Ryan Harrison si è percepito il crac definitivo, ed ora una situazione, che già da inizio 2015 si poteva scorgere all’orizzonte, è divenuta triste realtà davanti alla quale non si può tacere.
La sconfitta rimediata ieri dal più che modesto Harrison è la classica goccia, l’ultimo segnale prima dell’esplosione, o forse sarebbe più opportuno dire implosione in questo caso. Il tennis di Dimitrov è andato in frantumi, così come la sua racchetta distrutta nell’ultimo punto di un primo set prima dominato e poi perso, peraltro è il terzo attrezzo spaccato dal bulgaro in due mesi, sintomo di un’evidente inquietudine interiore. Una sconfitta del genere non è tollerabile, e non lo è per una serie piuttosto articolata di ragioni.
Innanzitutto c’è da considerare la qualità dell’avversario. Harrison ha un tennis decisamente mediocre, è una sbiadita versione del prototipo made in USA che poco ha a che vedere coi commenti entusiastici provenienti oltreoceano nelle primissime fasi della sua carriera.
In secondo luogo va presa in considerazione l’evoluzione del match e del punteggio con Dimitrov che nel primo set si trova avanti 5-3 prima di subire quattro giochi di fila, vince il secondo parziale per poi incassare un eloquente 6-0, fedele fotografo della situazione del bulgaro.
infine, ciò che rende ancora più grave questo scivolone è il fatto che ad Acapulco Dimitrov stava difendendo il titolo conquistato dodici mesi fa, il primo dei tre successi targati 2014.
I problemi del talento di Haskovo non iniziano certamente in Messico, anzi. Il 2015 è stato sin qui orribile: sette vittorie contro quattro sconfitte, un bilancio che tuttavia non immortala appieno le difficoltà del Dimitrov versione 2015. C’è, infatti, un’evidente e preoccupante involuzione nel gioco e nell’attitudine mentale del bulgaro, un’involuzione che se non stoppata a breve termine potrebbe portare a conseguenze tragiche nel futuro del più cristallino talento della sua generazione.
E’ pleonastico sostenere che urge un’inversione di rotta che può concretizzarsi in un cambio in panchina. A tal proposito, la separazione di Dimitrov dal team capeggiato da Magnus Norman che tanto bene sta facendo con Wawrinka ed il contestuale assoldamento di Roger Rasheed è stato salutato con scetticismo pressoché ovunque. A ben vedere, tuttavia, il tecnico australiano ha portato muscoli e solidità che, a loro volta, hanno portato a vittorie e fiducia. Tutti elementi di primaria importanza nel tennis odierno che, piaccia o non piaccia, devono essere presi in considerazione. Ora, però, qualcosa è cambiato, si è rotto, si è ingolfato ed è facile intuire l’esigenza di un cambio della guida tecnica, senza ovviamente scordare le migliorie apportate da Rasheed che ormai fanno parte del bagaglio del bulgaro.
I campioni, o presunti tali, si vedono nel momento di massima difficoltà. Dimitrov ora deve trovare la sua via e percorrerla fino in fondo. Il paragone con Federer, forse il più inflazionato argomento degli ultimi anni del tennis da divano, è tremendamente ingiusto per entrambi ed odora ormai di muffa. E’ evidente che il bulgaro non riuscirà neanche lontanamente a ripercorrere i successi dell’ex numero uno del mondo perché è palesemente inferiore a lui, ma questo Dimitrov lo sa così come sarebbe opportuno iniziassero a capirlo tutti.
Continuare a vedere Grigor performare come fatto ieri è francamente inammissibile ed irrispettoso nei confronti della generosità che Madre Natura ha avuto con lui.
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