di Luca Brancher
Si palesa sempre in noi l’intenzione di dare un lieto fine alle storie, anche nel caso in cui queste non siano concluse; si è ancora più tentati, invero, quando l’happy ending lo si può attribuire a quei racconti contradditori, ricchi di colpi di scena, positivi e negativi, ma che paiono in verità dimenticati, nell’oblio sportivo che spesso le circostanze tendono a decretare. E’ su questa falsariga che, con un motto di felicità, ho infatti appreso, nel tardo pomeriggio di domenica scorsa, della vittoria di Frederico Gil nel futures lusitano di Porto, ai danni della giovane speranza locale Frederico Ferreira Silva.
Fred non è più un ragazzino, infatti nel prossimo marzo compirà 30 anni e diventerà padre per la prima volta. Fred, nell’aprile di tre anni fa, era classificato al 62esimo posto del ranking mondiale, ed era di gran lunga il giocatore più forte di un Paese in cui, salvo qualche sprazzo passato, il tennis non stanzia nelle gerarchie degli sport maggiormente popolari. Fred tuttavia, da quando aveva 21 anni, soffre di un disturbo bipolare che ne ha compromesso, prima ancora che la carriera sportiva, la sua vita, quella di tutti i giorni, quella che, volente o nolente, ci troviamo ad affrontare non appena poggiamo il piede dal materasso a terra.
Avere sbalzi d’umore, rari attimi di gioia euforica che intervallano in maniera fugace e temporanea momenti di profonda depressione, è un grosso handicap, in genere per tutti, ma diventa un’arma letale per chi di professione vuole fare lo sportivo, e vuole emergere in una disciplina individuale come il tennis, dove, per buona parte del tempo, ti trovi solo, contro tutto e contro tutti. Certo, esiste uno staff, ma la tua carriera viene scandita in situazioni che affronti in solitudine: Frederico, dopo aver lottato, ha alzato bandiera bianca, perchè semplicemente non ce la faceva più. Ed ha voluto rendere noto, a tutti, quale fosse il suo malessere: nessun problema tecnico, ne tantomeno fisico, c’era qualcosa che non andava dentro di lui.
Lo ho conosciuto, Frederico, nel lontano 2006, complice un amico comune ed un turno di qualificazione del torneo challenger di Monza protrattosi più del previsto: lo accompagnammo nell’albergo dove alloggiava e, dato l’orario, mangiammo una pizza assieme. Un ragazzo molto schivo, troppo, il classico profilo di una persona che stenti ad immaginarti come trascinatore di folle. Pensavo fosse debole, di carattere, avrei capito di essermi sbagliato. Le nostre strade sarebbero tornate ad incrociarsi tre anni più tardi, proprio nello stesso periodo dell’anno, quando lui stava dando del filo da torcere a Rafa Nadal nel terzo turno del torneo di Miami, mentre io mi aggiravo nei dintorni del gigantesco stadio della Florida e ripensavo a quella pizza degustata ad Arcore. Ne aveva fatta di strada. Ad un certo punto notizie fugaci e successivamente rivelatesi errate mi davano la sensazione che quel primo set era stato addirittura vinto dal portoghese. Non era così, ma poco importava, non cambiava molto ai miei occhi.
Nello stesso momento in cui le vittorie, che gli permettevano di concedersi una posizione, se non tra i primi 100, poco distante, sono cominciate a mancare, il “male” ha preso il sopravvento, in modo molto più invasivo di prima. Come ebbe modo di raccontare lo scorso anno, nel corso del torneo challenger “Rai Open” di Roma, proprio ai microfoni di Spaziotennis, il lusitano non era più in grado di gestire, all’interno dei suoi match, gli alti e bassi umorali che questo disturbo gli comportava. Per quanto fisicamente lavorasse nel modo corretto, era necessario trovare una misura e concentrarsi maggiormente sul rendere inefficaci questi sbalzi, che lo limitavano in maniera decisiva. Si dice che il tennis, prima che tecnica, sia fisico e soprattutto testa: come si fa a competere, in queste condizioni?
Frederico è tornato. A piccoli passi. Tante sconfitte, ma sui social network, luogo come di consueto adibito alla comunicazione coi fans, non si lasciava scoraggiare, cercava di vedere il lato positivo, anche nelle sconfitte “Buona prestazione” “Sto migliorando”. Crederci o meno, lui era obbligato a farlo, altrimenti tutti i passi avanti, frutto della terapia, sarebbero stati vani. Domenica, come detto, la gioia, arrivata al termine di una “due giorni” piuttosto intensa, in cui ha prima regolato Rui Machado, uno dei suoi principali rivali in patria, e poi Silva, la giovane speranza di casa, proprio lui, che aveva sempre manifestato particolare difficoltà ad approcciare correttamente i derby. Troppe emozioni, una situazione ardua da gestire.
Ce l’ha fatta, e, in un mio lento percorso, ad esattamente 8 anni e mezzo da quella cena furtiva, ho realmente capito che il ragazzo che si trovava dall’altra parte del tavolo, non era un timido, né tantomeno un debole. Era della razza più forte di cui un uomo possa essere fatto: così come non c’è bisogno di essere dei ferventi cattolici per apprezzare i testi di Sufjan Stevens, allo stesso modo non è richiesto essere grandi appassionati di tennis per trovare il significato di questo successo. Gil ha dimostrato di essere non un campione, termine abusato, ma un uomo, un uomo forte, perché non c’è uomo più forte di quello che, mostrata la propria debolezza, riesce a trovare un rimedio per superarla.
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