(Stefano Galvani – Foto Nizegorodcew)
di Gianfilippo Maiga
Stefano Galvani, che da pochissimo ha appeso la racchetta al chiodo, può ben essere definito l’uomo che visse (tennisticamente) due volte. Se si vuol avere la riprova che per riuscire nel tennis bisogna essere dotati di qualità eccezionali, lui ce l’ha data. Non solo e non tanto con la sua capacità di risalire la china delle classifiche dopo aver in pratica perso un occhio, ma a mio avviso ancor più con la sua spietata determinazione nel superare un ostacolo tra lui e i suoi traguardi, quello della vista, che sembrava senza via d’uscita. Le tappe iniziali della sua carriera, brucianti, avrebbero potuto essere un boomerang, quando i risultati raggiunti si sono (più di una volta) volatilizzati e invece sono lì a testimoniare della sua tempra di combattente e di un potenziale in parte inespresso.
Come sei diventato tennista?
Sono un tennista (quasi) per caso e preterintenzionale. Mio padre era molto sportivo e anche tennista dilettante (massima classifica C2). A Padova, dove sono nato, sin da piccolissimo “cercavo la palla”, come si suol dire. Insistevo per giocare a calcio con lui già da bambino anche dopo che si era sciroppato parecchie ore di pallone. A 10 anni mi mandò al centro estivo di Tonezza 15gg e, siccome il tennis sembrava piacermi e io esserci portato, da lì ho continuato: i miei maestri erano allora Pavia e Frasson. I miei contatti con il tennis sono stati quelli di uno studente che andava regolarmente a scuola, (ho frequentato il liceo) e che ancora a 18 anni si allenava 3 volte alla settimana. Sporadici erano anche i miei contatti con la Federazione: a 14 anni ero stato ospitato una settimana a Cesenatico, allora Centro Federale, e ricordo che in quei pochi giorni avevo svolto la quantità di lavoro di un mese, finendo devastato. Insomma, i miei volevano che studiassi e studente ero destinato ad essere. Mi iscrissi alla facoltà di Scienze Politiche che era a Padova, ma capii subito che conciliare studi e tennis era molto difficile, per non dire improponibile. Ricordo che mi iscrivevo agli esami, le cui sessioni naturalmente erano scaglionate nel tempo e mi trovavo spesso di fronte al dilemma se continuare un torneo in cui stavo vincendo o lasciare tutto per tornare a dare l’esame. Quando il mio destino (non) tennistico sembrava segnato, galeotti sono stati il mio amico Marco Pontarini e il torneo di Manerbio, dove l’ho incontrato. Si allenava da Coppo a Roma: dopo aver convinto i miei, ho deciso di raggiungerlo, dandomi un anno per veder come andava. A Roma è cambiato tutto ed e è iniziata la mia vera vita professionale, non solo per la quantità di lavoro, ma anche per la mentalità che mi sono costruito. I risultati sono arrivati in fretta: nel giro di poco tempo avevo conquistato un discreto gruzzolo di punti ATP, finendo 3° in un satellite in Messico e in primavera in Bulgaria in due tappe vincendo singolo e doppio. Dopo 6 mesi, da 350 al mondo, mi sono distrutto la caviglia, cominciando la serie dei miei numerosi stop, (qui 4 mesi), ma la mia carriera di tennista professionista era iniziata.
Parli di numerosi stop. Perché?
In effetti la mia carriera è stata rallentata, intralciata da molti ostacoli. L’incidente alla caviglia cui ho fatto cenno prima non è stato certo il più significativo, anche se è accaduto in un momento in cui nutrivo incredibile fiducia e potevo finalmente abbandonare i satelliti per misurarmi nei Challenger. Inoltre non mi riferisco solo a incidenti. Nel 2000 per esempio ho dovuto fare i conti con il servizio militare. Ero stato assegnato al padiglione atleti, ma proprio quell’anno, per disposizione dei vertici militari, si era deciso di sopprimere i “privilegi” riservati agli atleti, con il risultato che scopavo aghi di pino e mi mangiavo le mani senza potermi allenare e giocare. Qualche sortita sportiva mi era riuscita di contrabbando, ma le condizioni erano proibitive, soprattutto per i primi 5 mesi. Decisivo fu un episodio che mi riguarda. Nonostante la inattività, avevo ancora una classifica (230) che mi permetteva di accedere alle qualificazioni di Wimbledon: volevo partire ma il permesso mi fu negato! Feci il diavolo a quattro e da allora riuscii a godere di maggiore libertà. Ovviamente, però, la vicenda che ha pesato di più sul mio percorso è la perdita di un occhio. In un incidente di macchina il vetro laterale andò in frantumi e una scheggia mi tagliò la cornea dell’occhio sinistro. Un primo tentativo di semplice “rammendo” si era rivelato fallimentare: avevo tentato un rientro, ma la cicatrice che avevo davanti all’occhio mi impediva di vedere bene la palla, la lisciavo letteralmente. A questo punto è cominciata un’Odissea dalla quale ho seriamente rischiato di non uscire. Nessuno si prendeva la responsabilità di operarmi l’occhio e se ho potuto continuare la mia carriera lo devo a un solo uomo: il medico di Forlì Massimo Busin, che mi ha trapiantato una nuova cornea. Devo tutto a lui e a Gandini, un ottico che mi ha trovato una lente a contatto particolare, con la quale ho potuto giocare proteggendo l’occhio e vedendo bene. Lo scherzetto mi è costato 14 mesi di stop e la discesa nel ranking ATP. Ho quindi dovuto ricominciare da capo, dai satelliti.
Come ricordi i tuoi trascorsi da professionista? Che tennista eri?
Io giocavo piatto. Questo, che di per sé può non sembrare strano, faceva in quel momento di me un tennista anomalo, visto che io sono cresciuto tennisticamente nell’epoca del top spin. Ci hanno provato anche con me, ma per fortuna, ci ha pensato mio padre a correggere il destino. Vedendomi giocare a 13 anni aveva notato quello che gli sembrava un sensibile peggioramento nel mio gioco. In effetti il top spin, la rotazione, non era per me. Facevo cadere la palla al centro del campo, non davo profondità e i rimbalzi alti, invece di mettere in difficoltà gli avversari, li avvantaggiavano. Mi prese da parte, mi allenò anzi lui per qualche mese, dandomi rimbalzi alti a metà e ¾ di campo, su cui io potessi appoggiarmi, giocare anticipi e far partire accelerazioni piatte di diritto. Dopo qualche mese avevo ritrovato il mio tennis e di top spin non si è più parlato, (con me ragazzino del tutto e beatamente inconsapevole). Il mio tennis mi ha permesso di giocare bene su tutte le superfici. Dopo il militare ho toccato un primo significativo best ranking a 104 ATP. Dopo l’incidente all’occhio e il mio nuovo inizio a fine 2004, sono riuscito a risalire fino a toccare il mio livello più alto nel mio anno migliore, il 2006, (99 ATP).
Hai qualche rimpianto?
Molti. Credo davvero che avrei potuto fare di più, anche tenuto conto degli incidenti. In qualcosa sono mancato io: ricordo che, raggiunto la 104esima posizione nel ranking, a ridosso dei primi 100, avevo davanti 3 mesi in cui non difendevo punti, ma non ho saputo approfittarne. Un errore grande è stato fatto però anche nella programmazione. Di questo un rimprovero ho fatto a Giampaolo Coppo e lui stesso ammette oggi che forse si doveva agire diversamente. Non ho osato. Meglio sarebbe stato, invece di giocare Challenger, cercare esperienze e punti nei tornei del circuito maggiore. Proprio nel periodo citato prima, per poter fare punti in grado di muovere la mia classifica nei Challenger avrei dovuto almeno raggiungere le semifinali, mentre negli ATP più alti bastava passare un turno. Per fare un altro esempio, nel 2001 mi imposi di andare alle qualificazioni degli Australian Open, dove persi al secondo turno. Giampaolo avrebbe preferito che mi allenassi a casa e giocassi qualche Challenger. Io invece ritenni quell’esperienza fondamentale per affrontare altri momenti di quel tipo. In effetti ho giocato tutti i tornei del Grande Slam, a volte dovendomi qualificare, a volte con accesso diretto al tabellone principale e ritengo quelle esperienze indelebili. Tutti mi ricordano e mi chiedono di rivivere il mio match con Youzhny, perso a Wimbledon al quinto e “girato” su pochi punti. Intendiamoci, anche per me quel match è stato importante: me lo sono rivisto in televisione e ho “rosicato”. Ma non è quella la cosa principale. Il ricordo più bello è come ho vissuto quell’incontro, le emozioni che ho provato. Mentre giocavo mi divertivo, assaporavo ogni istante, il verde di Wimbledon, il campo 2, l’atmosfera: stupendo.
Cosa ricordi e che rapporti avevi con l’ambiente?
Devo premettere che io sono sempre stato uno riservato, uno che si faceva fondamentalmente i fatti propri. Non mi considero e non credo di essere un cattivo ragazzo. In campo, però, lo ammetto, a volte sentivo particolarmente la tensione e finivo per litigare, o con l’arbitro o con l’avversario. Di questi miei atteggiamenti oggi mi dispiaccio e a loro devo forse qualche ombra nei rapporti con gli altri giocatori italiani. Non ho da raccontare episodi particolari, ma esprimo una sensazione. Io andavo per esempio a tifare gli altri, ma mi sembrava che questo supporto non fosse reciproco. Anzi, che addirittura qualcuno venisse per gufare. Questa impressione mi è stata in parte confermata dalla mia fidanzata, oggi mia moglie, quando ha cominciato a seguirmi; tra l’altro proprio a lei devo la perdita di molti dei miei spigoli. La verità è che prima di lei c’era solo il tennis, e essere così chiusi in quel mondo e nelle sue pressioni, a volte come nel mio caso lontani dagli affetti, non è un fatto positivo per l’equilibrio personale. In realtà dell’ambiente mi va di raccontare anche un episodio edificante, che mi è già capitato di narrare. Foro Italico, palestrina sotto il foro. Sto riscaldandomi con la Cyclette e passa il monumento, Roger. Lo saluto e da fuori mi saluta. Penso che la cosa sia finita lì e invece me lo vedo apparire in palestra: Federer mi aveva visto e aveva deviato dal suo percorso solo per chiedermi “Stefano, come va?” nonostante mi avesse già salutato. Un grande. Non sono tutti così: Rios era forse il peggiore, un po’ una bestia. Non solo era scortese e arrogante, ma dava anche la netta impressione di essere poco incline a rispettare normali convenzioni come lavarsi prima di sedersi a tavola, per dirne una.
E il tennis italiano?
Se la domanda si riferisce alla mia vicenda personale, per me il tennis italiano significa Coppa Davis. Ci ho partecipato 3 volte e l’ho trovata una esperienza unica, non avvicinabile a nessun altra. È banale ricordare la differenza che c`è fra un torneo individuale, in cui giochi per te stesso e un campionato a squadre, in cui rappresenti una Nazione. Non è banale, invece, viverla, questa differenza. La prima volta ho “approfittato” di un famoso rifiuto di Gaudenzi e Pozzi di giocare, mentre le altre due volte la convocazione mi è arrivata “per merito”, in un gruppo cui si affacciavano tra gli altri Volandri, Luzzi, Navarra, ecc. Proprio la prima esperienza mi ha dato la misura di quanto la Coppa Davis differisca dalle altre competizioni. Ero in campo e a tutto pensavo meno che alla partita: mi venivano in mente i tifosi, la famiglia, le aspettative di risultato… Un disastro: ero stritolato dalla situazione. Se invece la domanda si riferisce a cosa penso del movimento tennistico e della nostra situazione, vorrei innanzitutto dire che non condivido le lamentele che sento in giro sulla mancanza di validi giocatori, se non di campioni. Questa è una falsità in termini, specie quando si ha un numero 18 al mondo, Seppi. Ai miei tempi, a un certo punto ero il numero 2 italiano, dopo Sanguinetti. Oggi la situazione è ben diversa e abbiamo molti giocatori in grado di competere a buonissimi livelli. Voglio vedere cosa succede in Svizzera, troppo spesso portata paradigmaticamente ad esempio (due top in un Paese così piccolo, ecc…), quando si ritirano Federer e Wawrinka. Anche i tecnici italiani si sono aggiornati e conoscono le nuove metodiche di allenamento tecnico e fisico, nonché le nozioni di dietetica sportiva. Piuttosto, se devo fare un appunto, vorrei che ci fossero meno invidie, più collaborazione. Ho già parlato di quello che mi succedeva con altri giocatori italiani. Bè, lo stesso vedo accadere nel mondo degli allenatori, purtroppo.
Da ultimo, quali sono i tuoi progetti?
Come molti che smettono, dopo anni di girovagare ho bisogno di un po’ di stabilità. In più, oltre ad una moglie, ho anche due figlie : una di 6 mesi e una di 7 anni, che comincia a tirare qualche colpo con la racchetta. Quindi niente coaching itinerante. Vorrei piuttosto dare una mano ai giovani. In attesa di sapere se potrò fare base a San Marino, sto seguendo insieme ad altri un ragazzo di 17 anni, Cristian Carli. Credo che i giovani che vogliono avviarsi all’agonismo professionistico, oggi più che mai, abbiano bisogno di essere aiutati. Emergere è diventato davvero difficile: se io a 35 anni decido di allenarmi e partecipare a un Future, ne sono certo, vado fino in fondo, perché l’esperienza è fondamentale in un mondo così difficile, e questo dà la misura delle difficoltà, di quante strade sbarrate i giovani debbano superare oggi nella loro carriera.
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