di Alessandro Nizegorodcew
Anno 2005, New York, secondo turno di qualificazioni. Simone Bolelli, uno dei giovani più interessanti del panorama italiano e internazionale, non ha ancora compiuto vent’anni. Dall’altra parte della rete un veterano azzurro, che nella Grande Mela ha sempre tirato fuori il meglio di se stesso. Si chiama Giorgio Galimberti e ha 30 anni. Il giovane Bolelli spinge con servizio e diritto e a tratti lascio fermo il “Gali”, che però a Flushing Meadows è duro a morire. Giorgio ribatte colpo su colpo, domina tatticamente il match e chiude 6-4 6-4. Al turno successivo Galimberti batte Antony Dupuis grazie a due tie-break e si qualifica per il main draw, dove domina un giovanissimo Donald Young prima di perdere, ma giocando un bel match, contro Richard Gasquet.
Anno 2015, New York. Giorgio Galimberti e Simone Bolelli tornano a New York. Il primo, dopo una carriera che l’ha visto giungere al numero 115 Atp, è divenuto allenatore del secondo, alla ricerca di un best ranking ormai datato 2009. “Nel 2005 Simone ha capito che ero un vecchietto a fine carriera – spiega Galimberti – e mi ha fatto vincere”. La Grande Mela ha sempre portato bene al milanese, che a New York ha disputato alcuni dei match più belli della carriera. Melvin Udall, interpretato magistralmente da Jack Nicholson in “As good as it gets”, soleva dire: “Qui siamo a New York: se ce la fai qui, ce la puoi fare ovunque”. E il “Gali” lo ha seguito alla lettera. “Io amo questa città – spiega ancora l’azzurro – mi sono sempre trovato bene e questo è fondamentale per noi tennisti, sballottati ogni settimana di qua e di là. Il ricordo bello è certamente legato alla sconfitta in 4 set contro Marcelo Rios in quello che era il mio primo Slam in tabellone. Giocammo sull’Armstrong, che all’epoca era il campo centrale, disputai un bel match e fu un’emozione indimenticabile. Gli Us Open erano il “mio” torneo. Oggi da allenatore apprezzo moltissimo Wimbledon, ma da giocatore, non trovandomi benissimo sull’erba, non riuscivo ad apprezzarlo a dovere”.
Simone Bolelli arriva a New York in condizione buona ma non ottima. Prima problemi al ginocchio, poi l’appendicite, hanno rallentato quello che pareva essere un ottimo anno per il tennista di Budrio. A Winston Salem ha superato Delbonis e Querrey prima di perdere contro Carreno-Busta, dimostrando di poter essere pericoloso sul cemento all’aperto. Anche se qualcosa, nel suo gioco, deve necessariamente cambiare. “Stiamo cercando di aggiungere maggiore solidità al gioco di Simone – spiega ancora Galimberti – perché superfici e palle hanno rallentato il gioco. Non c’è paragone con quello che era il mio Us Open, oggi quei campi così veloci ce li scordiamo. Non si può vincere a questo livello tirando solo bordate da fondo campo, perché tutti sono pronti a ribattere colpo su colpo. Bisogna riuscire a inserire anche qualche variazione, per esempio con il back di rovescio, che Simone fa molto bene. E poi, come ovvio, fondamentale sarà la percentuale di prime in campo, perché con il servizio Bolelli può e deve fare la differenza. I problemi fisici? Ci sono stati, ma non cerchiamo scuse, siamo pronti”.
Considerazione finale sul doppio misto, che Bolelli potrebbe decidere di giocare a livello Slam. “Ma a New York non credo – ribatte Galimberti – perché subito dopo New York ci sarà la Davis in Siberia e credo sarà corretto, una volta sconfitti in singolare e doppio, prepararsi il prima possibile per la sfida con la Russia. In coppia con la Pennetta? A Wimbledon so che se ne era parlato. Vedremo…”.
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