A volte non si può non incominciare dalla fine. Infatti, se questo freddo febbraio appena concluso dovesse essere riassunto in un volto, in un nome, questo non potrebbe essere che, per l’ennesima volta, quello di Roger Federer, vincitore, proprio l’ultimo giorno del mese, del torneo di Dubai.
Forever King. A costo di apparire un po’ scontato e banale, come si fa a non iniziare con un tennista che ha vinto 84 tornei in carriera nel tennis del XXI secolo e, a 33 anni suonati è ancora numero 2 del mondo e ben lungi dall’abbandonare l’elite? Insomma ragazzi, qui parliamo di iperprofessionismo, di competitività estrema in cui i primi della classe (ma anche tutti coloro che ambiscono a raggiungerli) curano ogni aspetto del gioco in maniera scientifica e maniacale senza lasciare nulla al caso. Eppure, la classe di Roger continua a splendere come la stella più luminosa nel cielo del circuito, al punto che ogni suo incontro, in questo lungo e speriamo infinito viale del tramonto, è diventato un avvenimento da non perdere per alcuna ragione. Eppoi, parliamoci chiaro: il modo in cui Federer continua a mietere successi nei quattro angoli del Globo, è ancora più entusiasmante ed interessante dei successi stessi. Converrete infatti che la gestualità di Roger, la varietà delle soluzioni utilizzate (ed oggi, da “vecchio”, forzatamente ed intelligentemente ancor più varie che un tempo) e la naturalezza dei suoi colpi ne fanno un esemplare assolutamente unico che, archiviato il discorso GOAT come impossibile da definire una volta per tutte, ne fa una pietra miliare della storia del nostro sport, ben superiore ad altri contemporanei al di là dei trofei conquistati. E questo semplicemente perché solo lui, e non altri, è riuscito a tenere insieme la tradizione dei gesti bianchi e la modernità, la tecnica “pura” e i risultati, la bellezza e l’efficacia, mantenendo, grazie anche ad un fisico unico, una continuità di rendimento per 13 anni consecutivi che, con quel tipo di tennis, ha del disumano. Perciò, anche se Nadal e Djokovic dovessero vincere più tornei di lui (dubito), più Slam di lui (chissà…), il peso specifico delle sue imprese meriterebbe probabilmente di essere considerato più grande perché il “modello” è lui e solo lui. A suffragare questa mia tesi, inoltre, c’è il fatto che i due diretti interessati ed acerrimi rivali la pensano esattamente come me, come hanno spesso sottolineato in diverse dichiarazioni. Dunque, forse Federer non vincerà un altro Slam, forse non conquisterà più nemmeno un torneo (per questo ogni ulteriore successo deve essere salutato con gioia da tutti gli amanti del bel tennis), ma la sua unicità merita di essere ribadita ed adeguatamente sottolineata una volta di più. Piaccia o no. E continuiamo a goderne, finché avrà voglia.
Quattro lampi d’azzurro. Mi sono un po’ dilungato su Federer (andava fatto) ma questo febbraio ha vissuto altri momenti intensi, alcuni dei quali hanno riguardato i nostri portacolori. Nel bene e nel male.
Miracolo Vanni. Su tutte va segnalata l’impresa di Luca Vanni che, a ventinove anni compiuti, dopo una carriera trascorsa a lottare per il pane ed il ranking nei challenger e nei futures, ha trovato la cosiddetta “settimana della vita” in quel di San Paolo del Brasile dove, bravissimo a superare tre turni di quali e fortunatissimo ad essere chiamato a rimpiazzare la testa di serie numero uno, è stato di nuovo molto bravo a vincere tre lottatissimi match di tabellone principale riuscendo ad issarsi addirittura in finale, nella quale è stato sconfitto sì, ma solo al tie-break del terzo, dall’ostico uruguaiano Pablo Cuevas. In questi casi è sempre difficile dire se si tratti, appunto, di un evento unico nell’ambito di un onesto percorso professionistico, l’occasione della vita che si presenta e si sfrutta per poi tornare più o meno rapidamente nei soliti ranghi, oppure se sia da considerare l’inizio di una nuova carriera a più alti livelli. Vanni un po’ lo conosco, l’ho visto qualche volta giocare in giro nei futures (ricordo una finale ad Avezzano) e ne ho piacevolmente constatato i miglioramenti figli della passione, della serietà e dell’indubitabile impegno che lo contraddistinguono qualità che, va sottolineato, lo avevano già proiettato nelle vicinanze dei primi 150 (mica male). Le variabili in gioco sono tantissime ma, obiettivamente, credo poco che riuscirà a ripetere un simile exploit. Certo è che da ora in avanti Vanni potrà godersi un’ultima parte di carriera senza pressioni, fregiandosi di un risultato che tanti suoi colleghi azzurri con forse più talento ma nemmeno la metà dell’umiltà e della tenacia del ragazzo toscano, possono tranquillamente continuare a vedere solo nei propri sogni. Di notte.
Tracollo Fed Cup: inganno e…beffa. Proprio mentre Vanni faceva scintille in Sud America, a Genova, dopo tanti risultati straordinari, si scriveva una triste pagina nella storia della nostra squadra di Fed Cup. Su un campo in terra battuta (in)degno delle peggiori paludi sudamericane di qualche decennio fa, le nostre ragazze, prive di Flavia Pennetta, sono state rimontate da 2-0 e sconfitte 2-3 da quella terribile masnada di giovani spavalde e senza scrupoli che compone la squadra francese di Amelie Mauresmo. Se ne sono dette di tutti i colori su questa sconfitta. Personalmente, smaltita la delusione, mi sarei limitato a registrare la debacle come un semplice incidente di percorso di un team, certo un po’ stagionato, che, al netto delle precisazioni e dei distinguo, ha mietuto successi con continuità nei quattro angoli del Pianeta per tanti anni e che è uscito sconfitto contro due avversarie, Garcia e Mladenovic, che su un match secco, in giornata buona, possono nasconderla a tante. Avrei fatto così, dicevo, se un’urna molto più che nemica, non ci avesse riservato l’accoppiamento peggiore possibile per lo spareggio della prossima estate: gli Stati Uniti di Serena e Venus. Con gli USA al completo dire addio al World Group sarebbe praticamente una certezza. A quel punto potremmo anche cominciare a porci seriamente un po’ di domande sul futuro del nostro tennis in rosa.
Finalmente Bole! Dopo 11 anni di carriera e alcuni incontri equilibrati, Simone Bolelli è riuscito a sconfiggere un top-10 (oltre a Gilles Simon in Hopman Cup). È avvenuto in quel di Marsiglia nel secondo turno dell’Open 13, dove Bole ha superato 7-5 al terzo Milos Raonic, numero 6. Come ogni cosa, si può guardare il bicchiere mezzo pieno (Bole è in gran forma, continuo e reattivo, gestisce bene le situazioni delicate ed è di nuovo consapevole di sé), oppure mezzo vuoto (ci ha messo due lustri a battere il primo top-10, ormai ha 29 anni, il meglio l’ha già dato e il treno è passato). La verità sta quasi sempre nel mezzo ed io, che seguo con interesse e fiducia Bolelli fin dai tempi di Ronzoni e Vavassori, non posso non sperare che riesca a dare continuità a questo momento positivo anche perché, a parte qualche “cambialina” negli Slam, non ha punti pesanti in scadenza, per cui il ranking potrebbe anche migliorare. Le incognite vengono, al solito, dal fisico, che spesso nella sua carriera lo ha abbandonato proprio sul più bello. Inoltre non credo più, come invece sostengono ancora alcuni autorevoli addetti ai lavori, che Simone possa puntare alle più alte vette della classifica (top-10 o top-20). Non so, il livello sembra essere lì vicino, i colpi sono sempre stati lì vicino, ma gli è sempre mancato qualcosa che continua a mancargli. Sinceramente mi stupirei se riuscisse ad entrare nei 30. Lieto, come al solito, di sbagliarmi.
Rio… casa nostra! Scrivi Rio e leggi Italia. Il Rio Open 2015 sarà ricordato per essere stato uno dei tornei più azzurri della storia del tennis. Un combined (tra l’altro ATP 500!) con due italiani in finale lo stesso giorno, infatti, non so quando lo rivedremo… Merito di Fabio Fognini e Sara Errani, due giocatori non proprio al massimo della condizione, ma che hanno trovato in Brasile le condizioni ideali per esprimere il meglio di sé. Sarita era testa di serie numero uno ed è stata brava a tener fede al ruolo di favorita e a cancellare la disfatta di Genova, Fabio invece, da numero 4 del seeding, ha faticato parecchio prima però di compiere un autentico capolavoro in semifinale, dove, perso nettamente il primo set, si è concesso il lusso di estromettere dal torneo addirittura sua maestà Rafa Nadal. Può darsi anche che non fosse al massimo della forma, il maiorchino (che però otto giorni dopo ha vinto il titolo a Buenos Aires a mani basse…), ma quando si batte sulla sua terra battuta un personaggio che in carriera ha perso una ventina di incontri sui più di 300 disputati su quella superficie, riscrivendo sul rosso ogni statistica possibile, non si può che salutare questo risultato come una delle imprese più grandi mai compiute da un tennista azzurro in ogni epoca. Poi, certo, Fabio è stato stroncato da Ferrer in finale ed ha raccolto tre game con Berlocq a Baires qualche giorno dopo, ma questa è un’altra storia: la solita!
Povere donne… Mi si accusa di esser maschilista e non tenere in giusta considerazione le donne: è vero! Mi accorgo infatti che nei miei pezzi le “quote rosa” non sono ammesse. Non è che sia accaduto granché nel circuito WTA, però almeno due parole mi tocca dirle sulla romena Simona Halep, che si è portata a casa, da favorita numero 1, il torneo di Dubai, e sulla venticinquenne svizzera Timea Bacsinsky che, sul cemento di Acapulco, ha conquistato il primo titolo della sua seconda carriera dopo il ritiro-farsa del 2013. Almeno ho salvato la faccia…
Ci vediamo a Marzo dopo la Davis (che andrà benissimo per noi, tranquilli) e i Masters 1000 americani sul cemento.
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