Questione di soldi, di volontà politica, di visione e di opportunità. Barare è nella natura umana, già nel terzo secolo avanti Cristo gli atleti erigevano piccole statue a Zeus per chiedere perdono dopo aver aggirato le regole. Tentazioni umane, troppo umane, che le luci dello sport-business hanno prevedibilmente moltiplicato. E i controlli?
Per il professor Sandro Donati, preparatore atletico, consulente Wada, autore di “Campioni senza valore” e “Lo sport del doping”, le risorse per una seria battaglia contro il doping ci sono. È la volontà politica del sistema che dovrebbe cambiare. “La WADA non ha i mezzi per effettuare direttamente i controlli, e allora finisce per affidarsi alle federazioni internazionali, che gestiscono autonomamente i controlli a sorpresa. Ma questo tipo di test funziona se davvero si pretende dagli atleti totale rintracciabilità e si elimina la finestra oraria”. Gli atleti, infatti, devono indicare un’ora nella quale si dichiarano disponibili per il test. “La maggior parte delle persone pensa che sia quello il momento in cui avviene il test ma non è necessariamente così. Se devi assolutamente prelevare un campione, semplicemente in quella finestra di un’ora hai la migliore probabilità di riuscirci” spiegava il fondatore della WADA, Dick Pound, a Tennis Space. La finestra può essere scelta tra le 6 del mattino e le 11 della sera, ma se si hanno credibili informazioni che dimostrano una pratica dopante in quelle ore notturne, i test possono avvenire anche in quelle ore. E da quest’anno basteranno tre test saltati, o tre violazioni delle norme sulla corretta comunicazione degli spostamenti, in 12 mesi, non più 18, per far scattare la squalifica. La fascia oraria, spiega Donati, “consente agli atleti che vogliano barare di usare microdosi di sostanze proibite, anche subito dopo aver effettuato un controllo, sapendo di avere 23 ore per smaltirle. Oppure, per esempio, di ricorrere all’ormone della crescita, che in brevissimo tempo diventa irrintracciabile”.
Una risposta può arrivare, prosegue, “solo dal monitoraggio ematico”, dal passaporto biologico, cui l’ITF è arrivata più tardi di molte federazioni internazionali. Anche per effetto della sua introduzione, tra il 2011 e il 2014 i test su campioni di sangue effettuati dall’ITF sono passati da 21 a 1139. Anche se,sottolinea Donati, “il sistema sport ha fatto un po’ il finto tonto. Ha inserito nel passaporto solo parametri per individuare le sostanze dopanti più usate negli sport di resistenza. Mancano, invece, tutti quei parametri che permetterebbero di individuare l’uso di sostanze per aumentare la potenza muscolare”. E il tennis, ricordava già al direttore Alessandro Nizegorodcew e Emanuele de Vita, “non è uno sport soltanto tecnico. Le partite si svolgono a velocità di spostamento molto elevate. Serve potenza nei colpi e molta resistenza. Non si può definire uno sport solo tecnico, ma è anche fisico, molto di più rispetto a 20 anni fa. In un contesto di questo genere, il doping da testosterone e da anabolizzanti è molto efficace”, come dimostra la squalifica del recidivo Odesnik, trovato positivo al Methenolone (steroidi) e al GHRP-6, l’ormone della crescita.
L’americano, come già abbiamo avuto modo di trattare, è stato “scoperto”, per la seconda volta, dall’USADA, l’agenzia antidoping nazionale, che già nel giugno 2012 aveva fornito le prove per la squalifica di Lance Armstrong, raccolte in un dossier di 1000 pagine, e scoperchiato quello che il direttore Travis Tygart ha definito “il più sofisticato sistema di doping che sia mai esistito nel mondo dello sport”. Un sistema per anni coperto per anni, secondo il rapporto della Commissione indipendente per la riforma del ciclismo (CIRC), dall’UCI che sotto la presidenza dell’olandese Hein Verbruggen, considerava la lotta al doping una caccia alle streghe pregiudizievole per il ciclismo.
E certo l’ITF, che ha tentato di nascondere la positività di Marin Cilic dietro il ritiro da Wimbledon per un falso infortunio al ginocchio, poi scoperta solo grazie alle prime indiscrezioni pubblicate dalla stampa croata, non ha lasciato un’impressione molto migliore. L’ITF, il cui programma antidoping è finanziato da ATP, WTA e Grand Slam Committee, che ha raddoppiato i fondi nel 2013, non è diversa dalle altre federazioni internazionali, continua Donati. Sono i soggetti più interessati alla vendibilità del prodotto-sport, che passa anche il livello di prestazione, e di conseguenza i soggetti che pagano un prezzo maggiore in termini di credibilità nel caso di positività di un atleta di vertice. “Per questo” spiega Donati, “i controlli andrebbero effettuati da organizzazioni davvero terze, che non dipendano né dalle federazioni internazionali né tanto meno dai comitati olimpici nazionali. Devono intervenire i governi, e creare agenzie davvero autonome. In questo modo si potrebbero anche abbattere i costi dei controlli a sorpresa per gli atleti che magari si allenano in Paesi lontani. Perché un controllo ematico costa sui 150 euro, ma ad oggi devi aggiungere le spese di viaggio e soggiorno degli operatori, i costi di conservazione del campione e di invio a uno dei laboratori accreditati, e si arriva anche agli 800-1000 euro per ciascun test. Con la giusta volontà politica, le risorse ci sarebbero già, si tratterebbe solo di redistribuire, di destinare diversamente i capitali a disposizione della WADA”.
Anche le agenzie nazionali, che dipendono dai comitati olimpici, hanno più di qualche ombra. Certo, l’USADA ha portato a squalificare Armstrong e Odesnik, la bistrattata agenzia giamaicana ha adombrato l’immagine dell’isola fucina della velocità con il più grande scandalo nella storia dell’atletica, che però non ha toccato Usain Bolt (solo per leggerezza o per proteggere il suo immenso valore come testimonial dello sport?). Ma, allo stesso tempo, la storia racconta del doping di stato nei Paesi dell’Europa dell’Est e di un sistema come quello spagnolo che per Donati “è del tutto privo di credibilità. Lì c’è un problema nazionale, nazionalistico direi, iniziato prima delle Olimpiadi di Barcellona del 1992, cui si aggiunge una legge che per le pratiche dopanti prevede solo sanzioni amministrative, non penali”. Un Paese, e un sistema, su cui si sono concentrate le inchieste più pesanti, l’Operacion Galgo prima e l’Operacion Puerto poi. Un Paese in cui il presidente della RFET, la federazione tennis, dichiarava a Bloomberg nel 2013 di aver accompagnato a Parigi, a fine anni ’90, un giocatore che sarà multato per l’equivalente di quasi 5 mila euro senza che la sentenza sia mai stata resa pubblica. Un Paese su cui si sono concentrate ombre e sospetti per il ruolo di Luis Garcia Del Moral, che faceva parte dello staff medico della US Postal ai tempi di Armstrong, e ha avuto contatti con diversi tennisti a Valencia, e di Eufemiano Fuentes, sotto processo proprio per le risultanze dell’Operacion Puerto. Assolto in primo grado dall’accusa di aver dopato non più di 36 tra ciclisti e atleti, a cui appartengono le 211 sacche di sangue e plasma sequestrate dalla Guardia Civil nel maggio 2006 e conservate al laboratorio IMIM di Barcellona. Prove che il giudice Julia Patricia Santamaria ha ordinato di distruggere dopo la sentenza definitiva, dando così un messaggio chiaro e pesante. “E’ un invito alla Guardia Civil” commenta Donati, “a non indagare. E in Spagna la Guardia Civil dipende dal potere esecutivo”. Il giudice ha anche respinto la sollecitazione del Coni, parte civile nel procedimento, a richiedere l’identificazione di tutti gli atleti che hanno avuto rapporti con Fuentes, nonostante la disponibilità del “dottor doping” a fare i nomi: “da me”, ha insistito Fuentes, “non sono venuti solo ciclisti, ma anche calciatori e tennisti”.
Il Coni, tuttavia, allo stesso tempo avrebbe trasformato il sistema italiano di controlli antidoping, secondo l’informativa del ROS e dei NAS depositata alla Procura di Bolzano, “a rituale amichevole, privo di sanzioni”, senza disporre “controlli nei confronti della totalità o quasi dei propri atleti di punta candidati alle medaglie” nei sei mesi prima delle Olimpiadi di Londra. E avrebbe così aiutato a coprire a lungo anche l’assunzione di sostanze proibite di Alex Schwazer. E proprio l marciatore altoatesino è legata l’ultima iniziativa, destinata a rompere gli schemi, di Sandro Donati. Sarà proprio l’icona dello sport pulito a seguire il suo rientro alle gare.
“Alex mi ha prospettato questo suo desiderio. Io gli ho posto una sola condizione, che Alex rivelasse davvero tutto ai magistrati, perché avevo la sensazione che non l’avesse ancora fatto. Schwazer ha rinunciato alla finestra oraria, e sarà testato anche oltre i parametri del passaporto biologico, per questo ho coinvolto il chimico Dario D’Ottavio e l’ematologo Benedetto Ronci”. Quella di Donati, che si avvarrà anche della consulenza tecnica di Mario De Benedictis, fratello e allenatore di Giovanni, è una scelta di campo coerente con tutto un percorso di convinzioni e di opposizioni che ha descritto nei suoi libri. “Mi interessa la credibilità del suo rientro” ha spiegato, “mi interessa cancellare i sospetti che sempre ci sono su un atleta dopato che poi rientra. Ma ho sempre sostenuto che in questi casi l’atleta è l’anello debole della catena, e anche il suo caso, in cui ci sono diverse complicità e due medici indagati per favoreggiamento, lo dimostra”.
Ogni atleta, insomma, ha diritto a una seconda chance. Ma non alla giustificazione del “lo fanno tutti”. Non c’è differenza, conclude Donati, tra doparsi per costruire un illecito vantaggio o per colmare uno svantaggio illecitamente costruito da altri. “Questa può essere anche un tentativo di giustificazione di chi viene scoperto. Se l’hai fatto per primo o per secondo, però, non fa differenza. L’unica distinzione che conta è tra chi gioca corretto e chi col trucco”.
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