di Luca Brancher
Era morto. Non doveva giocare nemmeno gli ottavi di finale. Ad un certo punto sembrava quasi ufficiale. Poi no, era tutto uno scherzo. Gioca e vince.
Contro Ferrer, invece, era l’avversario che pareva lì lì per dar forfait. Poi scende in campo. Ed in campo, dopo poco, si fa nuovamente male lui. Sembra tutto finito. Ed invece un altro scherzo. Sa di non stare benissimo, quindi diventa offensivo e accorcia gli scambi, cancella la brutta prestazione dell’anno precedente, quando ad eliminarlo da Wimbledon era stato proprio lo spagnolo, e si qualifica per le semifinali, senza perdere un set.
Ma come ci arriverà? Riuscirà a tenere testa al grande favorito, Novak Djokovic?
Juan Martin Del Potro, Delpo, ci è arrivato benissimo al match. Sfavorito, era sfavorito, ma ha accarezzato a lungo il sogno di poterne venire fuori, al cospetto del robot serbo. O forse no, accarezzato è eccessivo, perché in un 3 su 5, contro il numero 1 del mondo, non possiede la resistenza atletica per competere fino in fondo, però a chi ha seguito il match interessava poco. Davanti agli occhi si stagliava un giocatore che ha infatti in sé innato un dono. Quello di coinvolgerti. Juan Martin Del Potro non ha l’eleganza di Roger Federer, la tenacia di Rafael Nadal, la solidità di Novak Djokovic o la varietà di Andy Murray, ma ha una dote, a mio personalissimo avviso, di cui dispone in maniera quantitativamente superiore rispetto a qualsiasi altro protagonista del circuito attuale. Come ti fa vivere lui i match, nessuno. Ci ha fatto sperare di andare oltre l’ostacolo, ci ha illuso, ma quell’illusione non è stata tanto foriera e prodroma di una delusione finale quanto indicativa del grande tennis mostrato in quelle ore.
Le partite di Del Potro, quelle vere, quelle importanti, sembrano un film girato da un regista che, volontariamente, ha deciso che l’occhio dello spettatore deve prendere le parti dell’argentino. Peccato che tutto questo non sia sceneggiato ad arte, ma vita reale, un avvenimento sportivo in cui Juan Martin riesce ad accattivarsi ogni simpatia. Sarà per quel viso così ricco d’espressione e tante volte contratto in espressioni quasi fanciullesche che mal si coniuga con la conformazione fisica da gigante, sarà per quel suo modo di affrontare le difficoltà sempre col petto in fuori e con l’arma, la racchetta, pronta a prendere a schiaffi – perché il dritto del Del Potro ricorda maledettamente il movimento di un sano ceffone – qualsiasi pallina passi nei pressi. Insomma, non si tira mai indietro. Può perdere, ma nel bene o nel male il destino dell’incontro lo decide lui.
Ha coraggio, ma è fallace, sbaglia, tante volte sembra in difficoltà, annaspa. E’ umano, ha un atteggiamento tutt’altro che etereo, quello solitamente proprio dei campionissimi, è un cavaliere con macchia. Del Potro sembra uno di noi, Del Potro è uno di noi, pronto a combattere, pronto a dare tutto, anche contro un destino che irrimediabilmente gli è avverso – e te lo comunica, sbarrando gli occhi, nel momento in cui recepisce che il suo compito è arduo, ma non vuol dire che sta per molare, sta solo cercando le residue energie per sferrare un nuovo attacco. Quando chiama l’Hawk Eye, ed è conscio di aver commesso una sciocchezza, lo si capisce perché il suo sguardo tradisce ogni singola emozione. E quelle emozioni ce lo fanno sentire così vicino. Come quando sul proprio servizio va sotto 0-30 o 0-40 e sai già che farà di tutto, pur di uscirne. Servizi, dritti, non si tirerà indietro. Ci proverà e, come ogni eroe, spesso ci riuscirà. Non sempre, perché altrimenti non ci piacerebbe così tanto.
Darà tutto, ogni singola stilla di sudore, il problema, semmai, è un altro, mettersi nelle condizioni di giocare questi tipi di match. Arrivare alle situazioni che contano per giocare i match che contano, insomma.
Infatti, dopo averlo visto, giocare così, uno si pone il quesito “perché non arriva sempre a questi livelli?”. E gli infortuni giustificano, sì, ma solo in parte. Probabilmente il punto è anche questo, lui si esalta ed esalta in queste occasioni, ma negli incontri che precedono non sempre ha le motivazioni e la cattiveria adatta. Vanno trovate.
E’ un gigante, ma buono, spara (palle), ma solo a fin di bene, a volte pare confusionario, ma in fondo le sorti della storia dipendono da lui. E’ il protagonista di un film, lo stesso che fu girato quattro anni fa a Flushing Meadows: e sì che di pellicola, per girare, parrebbe essercene ancora. Dipende da lui. Soltanto da lui. E noi saremo qui ad attenderlo.
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