Qualche scriteriato ha lanciato un petardo proprio sotto la mia finestra, mi sveglio all’improvviso. Primo gennaio. Trovo la forza di indossare una camicia qualsiasi, la bocca sa ancora di spumante. La vista degli antipasti sulla tavola già apparecchiata mi nausea. Accendo la televisione. Tennis a capodanno, si può chiedere di meglio?
Fa caldo a Doha, lo si capisce dalle gocce di sudore che cadono copiose dai volti dei tennisti e dai polsini fradici lasciati cadere a terra al cambio campo. Le tribune sono semi-vuote, alcuni emiri parlano a telefono, le inquadrature della regia internazionale si focalizzano spesso sui grattacieli che fanno da contorno al centrale, sorti quasi per magia nel deserto del Qatar come fiori di passiflora in pieno inverno.
Andy Murray se ne sta tranquillamente seduto, il match dopo i primi game sembra essere una formalità. Lo penso anch’io, addentando svogliatamente un grissino. Dopo aver portato a casa il primo parziale, all’inizio del secondo lo scozzese prende subito un break di vantaggio. Lo stomaco mi si apre e sto già pensando a cosa mettere sotto i denti, dando per scontato l’esito della partita. Poi succede qualcosa. Qualcosa di talmente inaspettato che ha poi finito per cambiare per sempre il mio modo di guardare una partita di tennis.
L’avversario di Andy Murray è un tipo alto, dinoccolato. Viene da Bayreuth, la città per eccellenza legata alla figura di Richard Wagner. Indossa una collana con una conchiglia bianca e lucente, suda in maniera vistosa. Si chiama Florian Mayer. A prima vista non diresti quasi che sia un tennista, non è sicuramente uno di quelli che trascinano le folle. Non è un obiettivo pregiato per i fotografi: l’impugnatura estrema e le aperture esagerate fan sì che a volte arrivi sulla palla in maniera scomposta. Accartocciandosi, stirandosi, piegandosi. Uno stile unico che non tutti sono in grado di apprezzare.
Nel primo giorno dell’anno, come una rivelazione, con un piatto di spaghetti ai frutti di mare come accompagnamento, mi si sono aperti gli occhi. Quello che ho visto per cinquanta minuti mi ha sconvolto e allo stesso tempo illuminato. Dal punto di vista estetico il tutto può benissimo essere messo in discussione, lo si deve ammettere. Qui però i canoni di bellezza vanno messi da parte.
La mente di uno scacchista rodato e l’abilità misteriosa del prestigiatore. Luccicano e splendono entrambe in Florian Mayer, nel deserto circondato dai grattacieli.
Il tedesco è uno di quei giocatori che ha bisogno di tempo per poter scoccare tutte le frecce disponibili nella sua faretra tennistica. Quel tempo che non sempre riesce a trovare, sembra crearlo dal nulla. Tutto il suo repertorio scintilla, imbrigliando le geometrie di Murray. Andy si ritrova seppellito in una palude fatta di rovesci tagliati, attacchi in controtempo, demi-volée, rovesci strettissimi, dritti incrociati vincenti e palle corte, rigorosamente al salto.
Quando poi all’inizio del terzo, sull’uno a zero, 15-0 si inventa uno dei colpi più assurdi e allo stesso tempo geniali che io abbia mai visto, mi rendo conto che sto assistendo a qualcosa di unico. Una palla morbida ed attaccabile è appena atterrata nella sua metà di campo. Si sta per preparare a colpire di rovescio, il suo rovescio. Ma anche per l’osservatore attento è impossibile capire la scelta che sta per effettuare. Rovescio al salto in top a chiudere oppure il marchio di fabbrica chiamato drop-shot? Risposta: nessuna delle due opzioni sopracitate. Perché quel demonio di Florian si è appena inventato uno slice al salto, che atterra poco dopo la linea del servizio. Murray abbassa la testa. Aveva dato per scontato di perdere il punto, ma in quel modo non se lo aspettava minimamente.
Nel frattempo Mayer sembra essere diventato di ghiaccio: al cambio campo ha sempre la stessa espressione accigliata, quasi pensierosa e l’unica cosa che fa è cambiarsi ogni tanto la maglietta. Quando vince il match non sembra sciogliersi per nulla. Ha appena rifilato un parziale di 12 game a 4 al numero quattro del mondo e tutto ciò non sembra scuoterlo affatto. Dà un’occhiata alle tribune, dove sventola una grande bandiera tedesca, e batte il palmo della mano sulla racchetta per qualche secondo per ringraziare il pubblico. Tutto qui. Questa è la dimensione Mayer, dove invece delle interviste o dei social network è soltanto il campo l’unico luogo in cui si esprime alla perfezione il suo essere istrionico. Una apparente freddezza e tranquillità che mascherano alcune fragilità mentali ed a volte una certa rabbia, che non gli hanno permesso nel corso della sua lunga e martoriata carriera di raggiungere risultati migliori.
Florian Mayer, da quel momento in poi, ha segnato il mio percorso di crescita. Nel bene e nel male.
Tutti gli spergiuri rivolti ad internet perché non c’è, ancora oggi, neanche uno straccio di video dei quarti di finale raggiunti a Wimbledon in due occasioni, ad otto anni di distanza l’una dall’altra (2004, 2012). Le partite giocate nel periodo del best ranking di numero diciotto nel 2011 mai viste, perché ancora ignoravo la bellezza del tennis. Gli infortuni, le operazioni chirurgiche, le partite giocate male in condizioni fisiche pietose, la sfortuna. Le quali a Bucarest perse al primo turno contro Dustov e il disgraziato match con Laurent Rochette ad Aix-en Provence. Gli insulti e le cattiverie gratuite patite perché “ come fai a difendere quello lì, che gioca in quel modo inguardabile”.
E poi gli highlights di Shanghai 2011 in spagnolo, visti e rivisti un’infinità di volte, con Nadal intortato e confuso da un gioco, come al solito, vario ma nell’occasione semplicemente perfetto. La goduria nel vedere una volée spalle alla rete in allungo, secondo la commentatrice “casuale”. Ché sì, la componente fortuna, però quella volée o sai o non sai come farla. Ogni anno vedere l’arrivo della stagione su erba come una manna del cielo. I tuffi alla Boris Becker, il suo mito: quello nelle quali a Stoccarda contro Bachinger, quello contro Seppi ad Halle. Sì, quell’Halle 2016 che fu una favola. Un segno tangibile del fatto che il karma esiste. Perché l’unico torneo vinto non poteva essere sulla terra. Non aveva retto più neanche lui. Si era lasciato andare ad un pianto liberatorio. Un pianto che significava rivalsa.
Poi quest’anno la decisione. I risultati stentavano ad arrivare già da un po’, il fisico logorato stava cominciando a dare segni di cedimento. In stile sobrio, senza attirare grosse attenzioni, l’addio annunciato dopo lo US Open. Una sofferenza immane giocare Florian dopo aver saputo della notizia. Le partite lasciate andare dopo pochi game, quelle perse in lotta. Le due sole vittorie sull’erba come magra panacea.
Il giorno è arrivato. Mayer è già sotto di due set. Succede una cosa strana. Ogni tanto, tra un punto e l’altro, un sorriso gli si stampa sulla faccia. È consapevole del fatto che il lungo viaggio sta per terminare. Ride per davvero. Si sente leggero come mai prima d’ora. Sul 6-5, tira una risposta vincente di dritto. Quel dritto per tanti inguardabile. Poi una di rovescio. Il suo rovescio. Ed infine come poteva mancare la solita, immancabile e letale palla corta? Si porta a casa l’ultimo set della carriera. Un ultimo regalo. Un ultimo assaggio di quella genialità tennistica non ortodossa per fare felici i suoi estimatori.
E allora ripenso a quello scriteriato che mi ha svegliato a capodanno lanciando un petardo sotto la mia finestra. E lo ringrazio. Senza di lui forse oggi non avrei versato una lacrima per l’ultimo match giocato da Florian Mayer.
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