di Salvatore Greco
È inevitabile respirare una certa aria tardo-coloniale ripensando alla finale di Coppa Davis del 2008 che una Spagna rimaneggiata vinse, a sorpresa, in casa dell’Argentina di Del Potro e Nalbandian. Non solo perché si giocò in uno stadio dall’eloquente nome di Empianto Polideportivo de Islas Malvinas che strizza l’occhio, e nemmeno poco, alla scottante vicenda delle isole Falkland/Malvinas oggetto della famosa guerra tra Argentina e Regno Unito combattuta nell’estate del 1982 con la quale i britannici confermarono il proprio possesso sull’arcipelago, una delle ultime roccaforti rimaste di uno sbiadito passato imperiale e che il governo di Buenos Aires continua a rivendicare senza eccessiva diplomazia.
Si respira aria tardo-coloniale anche fuori da questi simboli involontari (?), perché se in Argentina si parla spagnolo il motivo non è certo un mistero e perché, più tennisticamente, l’Argentina prima di quella finale non aveva perso un match casalingo di Davis dal 1998, ovvero dalla sconfitta subita sulla terra di Buenos Aires per mano della Slovacchia nei play-off per il world group.
Quindi nel 2008 aver perso in casa da un antico dominatore, e sotto un simbolo tonante dell’orgoglio nazionale ferito, per un popolo come quello argentino dev’essere stato il proverbiale “carico” a briscola calato dall’avversario nel momento fatale. Non sembra un caso che ancora oggi i detriti umani e sportivi di quella vicenda incidano su tutto il mondo Davis argentino.
La terra di Buenos Aires, come si diceva prima teatro della sconfitta contro la Slovacchia, è stata anche la grande assente di questa sfida. L’amato mattone tritato impatta-palle dell’Estadio Parque Roca di Buenos Aires ospitò nel 2008 la cavalcata tutta casalinga dei gauchos verso la finale: nel primo turno contro il Regno Unito, nei quarti di finale contro la Svezia e nella durissima semifinale contro la Russia di Andreev e Davydenko; e tuttavia per la finale lo stadio glorioso fu accantonato in favore proprio di Islas Malvinas, a Mar del Plata, udite udite, sul cemento indoor.
Quasi si fa fatica a immaginarla l’Argentina che gioca la finale di Davis in un impianto indoor, soprattutto a novembre, in piena primavera nell’emisfero australe, l’istinto è di cercare spezzoni su youtube perché l’immagine proprio non viene agli occhi. Ma nel 2008 fu una scelta saggia, quasi obbligata, per provare a tenere e a vincere, finalmente, la prima Coppa Davis della storia per il Paese delle pampas: affrontare la Spagna sulla terra sarebbe stato un suicidio annunciato, meglio approfittare dell’adattabilità alle superfici rapide di David Nalbandian e dell’allora giovane Juan Martin Del Potro per mettere in difficoltà i terraioli spagnoli.
La Spagna dal canto suo arrivò oltreoceano senza il suo condottiero sul bianco cavallo, quel Rafael Nadal mattatore della semifinale contro gli USA, capace in quel 2008 di vincere l’oro olimpico, il primo Wimbledon e il quarto Roland Garros e arrivato inevitabilmente scarico e debilitato nel fisico sul finale di stagione tanto da dover rinunciare a Master e finale di Davis per un fastidio ai tendini. Le sorti della compagnia di re Juan Carlos I restarono quindi nelle mani del combattente Ferrer, di Feliciano Lopez e di Fernando Verdasco. Una buona squadra, certo, ma era chiaro a tutti che la differenza tra “con Rafael Nadal” e “senza Rafael Nadal” non avrebbe mai potuto essere pura semantica.
In ogni caso ad arrivare in condizioni più incerte furono proprio i padroni di casa che vissero i giorni della vigilia in uno stato di autentica schizofrenia, a partire dalle dubbie condizioni di Del Potro (che subì un’infiltrazione per un dolore persistente al piede) per finire con le storie sulla rapidità del campo su cui si dice che la federazione intervenne più volte per andare incontro alle mutevoli richieste dei giocatori, specie un nervosissimo (c’è da stupirsi?) David Nalbandian.
Insomma, gli ingredienti per un maracanazo in salsa argentina c’erano davvero tutti e il pronostico dei più cupi venne rispettato.
Venerdì, si parte, l’atmosfera a Mar del Plata è quella tipica da Argentina in Davis. Nonostante manchino terra rossa e sole cocente, il calore selvaggio dei tifosi, trombe, grancasse e cori da finale di Copa Libertadores ci sono tutti. Si parte con la disfida dei David: Nalbandian contro Ferrer. Il match scivola facile in favore dell’argentino, trascinato dal pubblico di casa che scandisce il suo nome (che è anche quello dell’avversario, ma insomma, non ci sono dubbi su chi dei due sia quello sospinto dagli spalti) Nalbandian conquista tre set praticamente in fotocopia strappando un break per ogni parziale allo spagnolo, ben lontano dal meglio di sé su quella superficie. Fin qui la scelta tattica di Mar del Plata sembra pagare.
Nel secondo singolare si affrontano Juan Martin Del Potro e Feliciano Lopez, tra gli spagnoli probabilmente quello meno legato al dogma della terra come dicevano già all’epoca i due quarti di finale conquistati sui prati di Wimbledon e come avrebbero confermato i titoli conquistati a Eastbourne nel 2013 e nel 2014. Difatti il gigante di casa si trova di fronte un Feliciano in versione folletto che serve bene e attacca per provare ad ammortizzare la potenza di Del Potro da fondocampo. Delpo conquista il primo set avvantaggiandosi di 7 ace e dell’unico break strappato al coriaceo spagnolo, poi nel secondo set non riesce ad avanzare, si fa portare al tie-break e lì Lopez lo impallina con un parziale di sette punti a due riportando pari il computo dei set. Il terzo finisce di nuovo dominato dai servizi, con Del Potro che ne mette giù addirittura 12 per contrastare un Feliciano ancora frizzante e preciso che si aggiudica un secondo tie-break in un clima assordante da parte dei tifosi argentini che però disturba più il giocatore di casa. Al quarto set il tennista di Tandil arriva provato nell’animo e anche nel fisico, regala subito un break a Feliciano che però non ne approfitta e concede subito il controbreak. Alla fine la spunterà Lopez con un altro break scippato a un Del Potro ormai platealmente dolorante dopo una palla rincorsa con troppo coraggio.
Dopo il primo giorno di sfide, il tabellone dice Argentina-Spagna 1-1.
Neanche a dirlo le polemiche su Del Potro fioccano, viene accusato di aver voluto giocare pur sapendo di non essere al cento per cento, si vocifera di una vivace discussione tra lui e Nalbandian, il malumore serpeggia, insomma: il day2 di Davis non comincia certo sotto i migliori auspici per la squadra di casa.
Il doppio già alla vigilia sembrava il punto più in bilico: troppo più affiatata la coppia Lopez-Verdasco rispetto a quella quasi improvvisata formata da Nalbandian e l’esperto Calleri, duo che non calcava i campi dal 2006. Ma se il punto del doppio era sacrificabile dopo un ipotetico 2-0, non è certo lo stesso dopo l’1-1 uscito dal maledetto venerdì, la carta Nalbandian è fondamentale per continuare a sperare.
E la scommessa all’inizio paga, con Nalbandian che nel primo set si inventa una risposta strepitosa sul 5 pari, gli argentini conquistano il break e poi lo confermano chiudendo il set 7-5. Nel secondo set gli spagnoli però iniziano a trovare la quadratura del cerchio, viene fuori la minore caratura tecnica di Calleri e un paio di errori di quest’ultimo consentono alla Spagna di conquistare il break e poi di chiudere a sua volta 7-5.
Il terzo set consegnato alla storia è da montagne russe: Nalbandian entra in campo scarico come può esserlo chi ha giocato cinque set di quell’intensità in due giorni, gli spagnoli sono a un passo dal chiudere, ma arriva la reazione di orgoglio dei padroni di casa che dura fino al tie-break dove sprecano un vantaggio di 5-1 e cedono il set agli avversari. A quel punto per Lopez e Verdasco chiudere il quarto, sugli argentini distrutti, è pura accademia.
L’Argentina del tennis è ufficialmente nel panico: 2-1 sotto dopo il doppio è un risultato troppo brutto per essere vero, ancora una volta però si parla quasi solo di Del Potro. Cosa farà il giovane gigante? Giocherà? Non giocherà? Impossibile stare dietro a tutte le indiscrezioni del caso, tra chi dice che il piede fa ancora male, chi dice che è fisicamente sano ma mentalmente provato dalla sconfitta con Feliciano, chi addirittura parla di un veto di Nalbandian furioso. Quello che è certo è che i diecimila dell’arena Islas Malvinas vedono entrare in campo per il quarto incontro José Acasuso, n.48 del ranking, che affronta Fernando Verdasco, preferito a Ferrer reduce dai tre set a zero subiti nel primo singolare di venerdì.
Match nervosissimo tra i due, l’argentino sente la pressione non da poco di chi rischia di deludere una nazione intera e perde il primo set sbagliando tantissimo, poi tocca a Verdasco iniziare a tremare e infatto lo spagnolo cede nel secondo confusissimo set dopo un tie-break nervoso sotto i colpi di Acasuso, ma soprattutto del pubblico. Il quarto set inizia dunque con il punteggio di 2-1 in favore dell’Argentina che può chiudere, ma il braccio di Acasuso trema, soprattutto quando c’è da colpire di rovescio, Verdasco tiene con lucidità, strappa un break e conquista il set. Si va al quinto.
A quel punto l’odore della disfatta impregna l’aria dentro lo stadio e il medical time-out chiesto da Acasuso nell’intervallo tra quarto e quinto set sembra davvero la cronaca di una batosta annunciata. Ed è così, l’argentino torna in campo senza forze, Verdasco non si fa impietosire, lo sposta a forza di angoli più ampi possibili e chiude 6-1. Vince il set, vince il match, vince la sfida.
La Spagna conquista la coppa Davis per la quarta volta, l’Argentina ha perso in casa dopo dieci anni la sua sfida più importante, a Mar del Plata per la prima volta dopo il 1816 sventolano festanti le bandiere del regno di Spagna.
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