di Salvatore Greco
Marin Cilic, da fresco campione slam, ha giocato cinque match: una vittoria meno facile del previsto in Davis contro l’olandese De Bakker, due vittorie facili a Pechino contro il cinese Bai e poi contro Joao Sousa prima della sconfitta contro il ritrovato Murray d’Asia, infine il rumoroso tonfo nel primo turno del Masters1000 di Shangai dove ha ceduto in tre set sotto i colpi del connazionale Ivo Karlovic. Sconfitta, quest’ultima, che sta facendo parecchio discutere gli appassionati sul vero valore di Marin Cilic: un campione slam che perde da Karlovic (con tutto il dovuto rispetto) ha vissuto solo due straordinarie settimane o sarà in grado di ripetersi?
In favore del croato di Medjugorje c’è una piccola statistica che vede anche tutti gli altri vincitori di slam di quest’anno mancare le attese nei tornei di rientro: Wawrinka a Indian Wells, Nadal ad Halle, Djokovic a Toronto. Dato sì inopinabile, ma non esente da una certa debolezza argomentativa: pensiamo innanzitutto a Nole e Rafa, la loro continuità non sarebbe in discussione in nessun universo concepibile, e comunque venivano entrambi da eventi importanti come il matrimonio per il serbo e il drammatico passaggio terra-erba consumato in due giorni per il maiorchino. Un po’ diverso il discorso per Stan che dopo l’Australian Open ha giocato a singhiozzi, ma con picchi altissimi come la vittoria a Montecarlo su Federer (e più scoglio psicologico di così…), e la sua vittoria a Melbourne –sebbene inaspettata- non sembra proprio un exploit, quanto piuttosto il compimento di un percorso di maturazione lungo e travagliato.
E Cilic dove si inserisce in questo contesto? Difficile definire il suo 2014 un percorso lineare verso lo slam: appena un secondo turno a Melbourne, una buona stagione sul cemento europeo con la vittoria a Zagabria e la finale a Rotterdam, su terra raccoglie poco ma al Roland Garros lotta con Djokovic per quattro set e a Wimbledon ai quarti di finale trascina il serbo addirittura al quinto. Dopodiché, quindici giorni incredibili a Flushing Meadows dove va oltre i tre set solo contro Kevin Anderson e Gilles Simon prima di ergersi meravigliosamente contro Berdych, Federer e infine Nishikori. Piccola nota a margine: nei masters1000 in stagione, già prima di Shangai, aveva raccolto pochissimo, perdendo sempre dai top10 quando è arrivato a incrociarli in tabellone.
La sensazione, insomma, è che Marin abbia giocato a New York tutte le sue carte migliori, esprimendo un tennis strepitoso anche e soprattutto grazie alla fiducia in crescita vittoria dopo vittoria che gli ha permesso di giocare al massimo delle sue possibilità. Un picco qualitativo che sembra destinato a rimanere tale, senza la continuità di gioco, oltre che di risultati, che serve per confermare le grandi vittorie e la sconfitta subita da Karlovic sembra confermare questa ipotesi.
Probabilmente influisce sulla cosa il fatto che il suo sia un tennis fatto di esplosioni: un gran servizio, un ottimo diritto, la ricerca del vincente, colpi certamente importanti ma che non sono una garanzia di risultato, specie contro i giocatori più esperti, specie se le giornate girano così così. Di certo c’è anche il fatto che Cilic, che in bacheca oltre lo slam, vanta solo tornei 250, non è abituato a competere a livelli altissimi ed è difficile immaginare che possa iniziare a farlo ora.
Stan Wawrinka, l’altro “intruso” slam di quest’anno, continua a deludere le aspettative dei suoi tifosi nonostante abbia vinto nello stesso anno il suo primo slam e il suo primo Masters1000, segnale che da Stan ci si aspetta di più. La sconfitta subita da Ito, come tante altre durante la stagione, sorprende e delude. Quella di Cilic con Karlovic, mi sbaglierò, ma più che un incidente di percorso sembra un ritorno sulla terra.
E intanto il finalista perdente di quello US Open, Kei Nishikori, non ha più perso una partita da allora portandosi a casa in due settimane due trofei. Giusto per capire chi in alto è destinato a restarci, fisico permettendo.
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