di Paolo Silvestri
Stefano Galvani ha molti motivi per sentirsi soddisfatto della sua carriera da poco conclusa. Una traiettoria solida (nonostante qualche incidente di percorso), l’ingresso nell’esclusivo club dei 100, e molti ricordi e aneddoti da raccontare ai suoi eredi. Mi piace rispolverarne uno in particolare. Se a qualcuno venisse infatti la balzana idea di cercare sul sito ATP il suo head to head con Rafa Nadal si troverebbe un’inaspettata sorpresa: Galvani 1 – Nadal 0. Come scusa?!? Sì, sì, proprio così, anche se bisogna risalire quasi alla notte dei tempi, concretamente al 2001, quando un Rafa quindicenne e rotondetto debuttava in un torneo Challenger, dove aveva vinto la sua prima partita in assoluto a livello internazionale, approdando al secondo turno. Qui, in un campo secondario gremito di curiosi accorsi per vedere il nuovo fenomeno del tennis spagnolo, lo aspettava il nostro ben più scafato tennista che, pur perdendo il primo set, alla fine si portava a casa partita e torneo. Lo scenario di questo debutto fu il Real Club de Tenis Betis di Siviglia, sede di uno storico torneo con mezzo secolo di vita che, dopo i corrispondenti cambi di livello, ha raggiunto a partire dagli anni novanta la categoria Challenger. Si tratta, sempre per rimanere nell’ambito delle curiosità, di un torneo giocato su una superficie particolare, la stessa terra giallognola usata anche nella Maestranza (la Plaza de Toros) e nei parchi e giardini della città, sfruttando un’abbondante materia prima ricavata dalle cave locali. Una terra (qua denominata albéro), con una grana più grossolana e più dura della classica polvere di mattoni, quindi più rapida e scivolosa, in sostanza meno confortevole, ma forse aperta a interessanti soluzioni di gioco “ibride” fra lento e veloce.
I tornei di questa categoria sono, per chi ama il tennis, appassionanti. Trovi i piccoli che diventeranno grandi, i grandi divenuti piccoli alla ricerca di un riscatto, i degnissimi professionisti che conoscono i loro limiti e svolgono il loro lavoro quotidiano senza necessariamente sognare di vincere Wimbledon, gli ex pro che, ormai in veste di allenatori, si iscrivono al doppio con il loro attuale pupillo, oppure alle qualificazioni con l’unico obiettivo di eliminare un po’ di pancetta. Questo in particolare, giocato in questa magica città d’Europa che sa d’Africa, ha l’interesse aggiunto di rappresentare un bel termometro per valutare la temperatura del tennis spagnolo. La partecipazione di tennisti iberici è logicamente sempre altissima, e qua sono passati davvero tutti, da Ferrero a Berasategui, da Moyá a Corretja, da Mantilla a Feliciano López, da Nadal a Robredo, che solo due anni fa venne a Siviglia nel suo tentativo poi sorprendentemente riuscito di risalire la china dopo un lungo infortunio. Basta guardare il palmarès del torneo, o anche solo la maglietta commemorativa con la scritta “todos han participado”, con il lungo elenco dei principali protagonisti che hanno calcato i campi gialli di Siviglia. E il termomentro del 2014 che cosa dice? La febbre non è ancora alta, ma come si è detto da più parti, lo può diventare. Un piccolo Nadal non si vede all’orizzonte, ed i palati del pubblico spagnolo sono talmente ben abituati che non si accontentano di ottimi giocatori.
Il dominatore delle ultime tre edizioni, Daniel Gimeno-Traver viene estromesso al primo turno da Muñoz de la Nava, mentre Pablo Carreño rispetta i pronostici e porta a casa la “Copa Sevilla” battendo in finale il giovane giapponese, ma tennisticamente spagnolo, Taro Daniel, che si allena a Valencia nell’accademia di José Altur. Per la cronaca, entrambi i finalisti avevano appena fatto le loro Americhe nell’ultimo Slam della stagione, lo spagnolo raggiungendo il terzo turno, battuto da Tsonga, e il giapponese superando per la prima volta le quali per poi essere fermato da Raonic. Carreño non è un nuovo Nadal, non ha nel suo arsenale armi di distruzione massiva, ma è un ottimo giocatore, veloce e solido, in particolare nella risposta al servizio, e che soprattutto dà l’impressione di sapere sempre quello che deve fare in campo, con calma e umiltà. Se crede in lui, e ormai da qualche anno, una vecchia volpe come “Dudu” Duarte vuol dire che la materia prima c’è e può senz’altro ambire ad entrare stabilmente nei primi cinquanta giocatori del mondo. Non dimentichiamo che l’anno scorso fu nominato dall’ATP Most Improved Player per aver compiuto l’impresa di guadagnare in una stagione più di 600 posizioni nel ranking (dal 715 al 66), il che non è proprio da tutti.
In tabellone anche Flavio Cipolla, fermato agli ottavi (complice un dolore alla gamba) dall’olandese Westherof, dopo una lunga lotta conclusasi al tie-break del terzo. E ai nastri di partenza anche l’italiano, ma anche lui spagnolo di adozione, Lorenzo Giustino, che dopo aver battuto al primo turno un altro giovane iberico di belle speranze, Roberto Carballés, è stato protagonista di un peculiare episodio di cui si è parlato molto in questi giorni sui media specializzati. In breve: sul 3 a 1 per lui nel terzo set contro lo spagnolo David Vega Hernández, si accascia letteralmente vittima dei crampi, senza però poter richiedere per regolamento un medical time-out se non al cambio di campo. Ma Lorenzo non riesce neanche a rialzarsi e a questo punto l’unica alternativa al ritiro è cedere all’avversario un numero di giochi proporzionale al tempo dedicato alle cure mediche. In sostanza, quando dopo non più di cinque minuti il gioco riprende, il tabellone dice Giustino 3- Vega Hernández 4. La giusta (a quanto pare) applicazione di una regola (mi pare) discutibile. Lorenzo riesce miracolosamente a riprendere il gioco e a mantenere la concentrazione, per poi cedere purtroppo al fotofinish. Va sottolineato che i crampi alla gamba destra sono stati in qualche modo la conseguenza di un problema alla gamba sinistra che lo aveva portato a vincere il secondo set praticamente zoppicando. Una partita incredibile persa 6/7 7/6 6/7 dopo più di tre ore, e con tutti gli onori delle armi.
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