di Sergio Pastena
L’altro giorno ho fatto un piccolo test di due domande a tre amici a digiuno di tennis. La prima era: “Se devi organizzare una partita di tennis dove trovi il campo?”.
Tralasciamo quello che ha risposto “Al Foro Italico”: non gli farò mai organizzare una partita di calcetto sennò mi fitta San Siro. Gli altri due, però, hanno risposto col nome di un club del napoletano e con un pragmatico “Cerco sulle Pagine Bianche”.
La seconda era “E se devi organizzarla in Kenya?”. In questo caso le risposte sono state simili: due han detto “Lo cerco in un villaggio vacanze” l’altro ha sparato con precisione chirurgica “A Malindi”. Barava, perché era stato in vacanza da quelle parti e il suo resort aveva i campi, comunque il punto cruciale è un altro: chi avrebbe mai risposto alla prima domanda Porto Cervo o Cortina d’Ampezzo?
Roba da turisti e fortunati
Questo semplice dato ci dà l’idea di quanto ancora poco ci azzecchi l’idea di tennis con certe zone povere dell’Africa: al massimo immaginiamo di trovare un campo in zone turistiche e di vederci giocare imprenditori tedeschi piuttosto che ragazzi kenyoti. L’idea è parziale: in realtà qualcosa c’è, tanto che in Kenya di recente, nel 2009, è stato organizzato persino un Future che non ha avuto seguito. Tuttavia c’è anche un fondo di verità: le cose poco a poco cambiano ma un tempo, se giocavi a tennis in certi paesi, o eri straniero oppure fortunato.
Fortunato lo era, Paul Wekesa, leggenda del tennis kenyano ed unico tennista ad essere mai entrato nella Top 100. Il padre, il vecchio Noah Wekesa, è infatti un politico abbastanza importante in Kenya: famiglia benestante, medico, membro dell’assemblea costituente kenyota, educato ad Edimburgo e Ministro dell’Ambiente nel paese africano. Inoltre, a dare un tocco di sport alla famiglia, ex pilota di rally. E il suo figliolo Paul poteva mai venir su pigro? Certo che no: se poi tuo padre si chiama Noah, evidentemente il destino si è divertito a giocare e prima o poi una racchetta te la ritrovi in mano.
Paul la racchetta la impugnò ben presto ed esordì nel circuito maggiore senza poi spostarsi troppo: all’epoca, per quanto possa sembrare strano, c’era addirittura un Challenger a Nairobi e qualche tennista andava a racimolarci punti facili. Al primo giro Paul perse subito ma al secondo, nel 1987, arrivò addirittura fino alla finale perdendo da un nome conosciuto, ovvero quel Luca Bottazzi che oggi è un noto commentatore televisivo.
Si può fare
Ottimo esordio, quanto basta per pensare “Si può fare”. Il talento c’era, tant’è che l’anno successivo Wekesa non sbagliò e si prese il torneo di casa, sconfiggendo altri nomi con un futuro a ridosso dei cento come Daufresne e Cunha-Silva. E come l’indiano Zeeshan Ali, battuto al secondo turno con un 18-16 al terzo che da quelle parti ancora ricordano. Immaginiamo il dialogo successivo col vecchio Noah: “Babbo, ti spiace se viaggio?” – “Figliolo, vai con Dio”. Parole precise, perché il Kenya è una delle nazioni più cattoliche al mondo e Wekesa aveva già viaggiato eccome: faceva la spola tra il Kenya e la California dove frequentava la cattolicissima Chapman University, punta di diamante della squadra di tennis.
Ma torniamo a noi: finiti gli studi Paul si mette in testa di fare sul serio e lo fa davvero. Nel 1989 parte da Auckland e arriva ai quarti di finale, dove fa soffrire Mansdorf. Lui, un kenyota. La chance di giocare uno Slam è più vicina di quanto si pensi: all’epoca, infatti, gli Australian Open erano disertati spesso e volentieri dai non indigeni e Paolino, pur con un ranking di poco dentro ai 200, guadagna l’accesso al tabellone principale. Subito il croato Oresar per lui, in un match ai limiti della follia: Wekesa lotta, trascina il primo parziale al tie-break e lo vince, si spegne totalmente per due set facendo tre games, torna a mordere al quarto e vince di nuovo al tie-break. Poi al quinto, finalmente, si porta avanti di un break e lo tiene fino al 6-4 finale. Il primo tennista kenyota a vincere un match di uno Slam. E chissà cosa staremmo a raccontare se nel secondo turno, contro Muster, dopo aver vinto 6-4 il primo avesse portato a casa il tie-break del secondo: l’austriaco arrivò fino alle semifinali.
Ci si vada piano, però, nell’immaginare “sorti magnifiche e progressive” per lui: nel resto del 1989 si spegne come nei due set contro Oresar, la classifica vacilla, nel 1990 gioca a Toronto e fa fuori Pozzi ma vive di fiammate e docce, fino all’annus horribilis, il 1991 nel quale gioca sette match e ne perde sette. La poco invidiabile striscia lo rispedisce nei meandri delle classifiche, numero 748, unico tennista kenyota ad aver assaporato l’aria del professionismo ma destinato da quel momento in poi a ricadere nell’oblio dei dilett…
Il colpo di reni
Fermi, la storia non finisce così.
Paul tra il 1992 e il 1993 non gioca molto e inizialmente combina poco, poi arrivano un paio di semifinali Challenger, schiaffi che ti svegliano e ti ricordano chi sei e cosa ci fai lì. Sei Wekesa, giochi per il Kenya, la vogliamo lasciare o no una traccia degna di nota, ragazzo?
L’estate del ’94 è decisiva: Challenger vinto alle Azzorre battendo Raoux e Fetterlein, finale contro Tieleman alle isole Reunion, altra vittoria ad Andorra mandando a casa Jarryd e, per il titolo, il nostro Crisitano Caratti. E il ranking che si trasforma, fino ad arrivare ad un impronosticabile numero 119 con pochissimi punti da difendere nella prima metà del 1995. Sembra fatta, ma arriva il braccino: tante sconfitte, pochissimi punti, meno dei pochi necessari per entrare nell’Olimpo della Top 100.
Il cronometro scorre, ma non abbastanza veloce: il colpo di reni decisivo Wekesa lo dà a Seul, dove al secondo turno elimina Gianluca Pozzi al tie-break del terzo confermando una storia legata a doppio filo all’Italia. Numero 100. Lui. Paul il kenyota. Neanche la soddisfazione di giocarci un torneo, da numero 100: una sola settimana, quando torna in campo è già 103. Poi ancora un’altra spinta: si gioca a Washington, ancora un secondo turno e ancora un tie-break al terzo contro Voinea, per prendersi la soddisfazione di un match contro Edberg e di nuovo il numero 100, sempre quello, per due settimane. Ma che importa andare a due cifre: ci sei, hai quello che inseguivi, tanto basta.
Dopo Washington Paul Wekesa vincerà solo due partite a livello maggiore per poi ritirarsi nel giro di un anno a 28 anni. Quello che doveva fare l’aveva fatto. Oggi in Kenya si gioca ancora poco, ci sono altri problemi per la testa della gente che il grip giusto. Chissà, magari un giorno anche il tennis sarà un modo per sognare una vita migliore.
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