Il caso mediatico dell’anno si è spento. Novak Djokovic ha lasciato l’Australia ed il primo slam della stagione ha ufficialmente perso il numero uno del mondo. Questo è teoricamente il fulcro di una questione andata ragionevolmente presto oltre il tennis, prendendo ben altri risvolti. L’interesse comune sarebbe dovuto essere quello di arrivare a capo di un nodo intricato nel modo più corretto, ma la querelle si è trascinata dando sfogo allo scontro tra due schieramenti netti. La premessa d’obbligo è una: Novak Djokovic vaccinandosi – cosa che il 97% dei top 100 ATP ha fatto – avrebbe giocato tranquillamente lo slam down under. Le regole sono regole, ma lo stesso si potrebbe dire dei protocolli rilasciati da Tennis Australia: qui il primo grande buco. A suo dire pronto a rinunciare al torneo, senza entrare nel merito di dettagli e voci, Djokovic ha potuto usufruire di una delle esenzioni comunicate da Tennis Australia, tant’è che inizialmente il visto è stato approvato. L’errore di comunicazione, anche qui senza stabilire se in buona fede o meno, tra il Governo dello stato di Victoria e Tennis Australia ha dato il via alle danze. Seguono l’eccessiva fretta nella prima revoca del visto – che ha poi propiziato il successo iniziale del serbo in tribunale -, le versioni contrastanti tra diretto interessato e parenti sul comportamento tenuto nelle giornate successive alla positività e gli scontri fuori dal tribunale.
Un mix letale di circostanze sbagliate, che avrebbero dovuto scoraggiare anche il parteggiamento dei più riottosi. La storia come sappiamo è diventata più grande del nostro sport e le tante figure extra tennis che se ne sono occupate, erano comprensibilmente poco interessate al risvolto sportivo della faccenda. Celebrare la sconfitta di Nole, come celebrarne l’eventuale vittoria, ha poco senso e denota mancanza di stile; la stessa che ha partorito le tante illazioni lanciate nascoste al grido di “reportedly”, la prima di queste ormai un mese fa quando sulla base del nulla si parlò addirittura di un’esenzione pianificata ad hoc. Nonostante le appassionanti nottate a seguire le gesta di Mr Wood e dei giudici Kelly e Allsop, non mi sento in grado di entrare nel merito della sentenza. Il ministro Alex Hawke ha determinato che la presenza del serbo nel paese era una minaccia per motivi di salute pubblica, interesse pubblico e buon ordine; ritengo sia arduo per appassionati e giuristi provetti riuscire dove hanno fallito i legali di Djokovic, già in partenza limitati dalla soggettività di alcuni punti.
Giocatori, media e appassionati, c’è chi ne ha parlato troppo e chi non ne ha voluto parlare. Scontato dire che la giusta misura stia nel mezzo e che la questione politica è comunque sempre andata in parallelo con quella sportiva, quanto è successo è e speriamo resterà un unicum nella storia del tennis. Tutto questo cosa ci lascerà? Probabilmente niente, d’altronde quando il campo torna a parlare è sempre così.
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