di Sergio Pastena
Malisse, poi a breve distanza Nalbandian e ancora Olivier Rochus.
Se è vero che il trimestre agosto-ottobre è spesso quello dei ritiri, per motivi evidenti (la stagione vola verso la fine e qualcuno molla agli Us Open) è anche vero che quest’anno è stato particolarmente sfigato per gli amanti del bel tennis: che se ne vada uno a stagione ci sta, ma tre in un colpo è troppo da digerire per il mio stomaco. Muoiono i peccatori, alcuni nel senso classico della parola altri per aver osato bestemmiare un dropshot nelle cattedrali dei bombardieri. Belli che non rinascono spesso.
Il primo fu Safin, alla fine del 2009. Quello che era tra i pochissimi a poter competere, se in forma, con i grandi duellanti degli ultimi anni, l’unico prodotto di razza oltre a Federer del tennis di inizio millennio. Con una piccola differenza: se King Roger si avviava ad un matrimonio gemelline incluse, il buon Marat si lasciava dietro una scia di groopies tale da ingenerare il sospetto che a volte perdesse apposta per essere consolato.
Pochi mesi e va via Santoro, che grandi peccati non ne aveva ma di sicuro faceva peccare. Faceva peccare perché potevi martellarlo di diritto, spazzarlo via a suon di bombe dal campo, sovrastarlo fisicamente. Ma poi lui da un angolo del campo, con l’avversario sceso sicuro a rete, piazzava una zappettata alla palla e nasceva una traiettoria impossibile, altra foto nell’album dei ricordi. E negli avversari nasceva la gelosia, perché puoi chiamarti anche Rafa o Nole e vincere milioni, ma quei colpi lì ti sono e ti saranno proibiti.
Anche il ritiro di Malisse non è stato una sorpresa, anzi vista la sua indolenza era sorprendente vederlo ancora lì a correre senza muscolo muovere nonostante fosse ultratrentenne. Capace di smantellarsi la carriera a botta di indolenze con una precisione scientifica, ma allo stesso tempo di elevarsi ad arte ed eleganza ad ogni colpo giocato. Vederlo beccare la pallina al salto era roba da labirintite: ci avessero messo il discobolo di Mirone non avrebbe raggiunto la sua fluidità.
E poi qualche giorno fa Nalbandian, che di peccati ne aveva a iosa ma è difficile dimenticare i momenti più bui della sua carriera, quelli nei quali si presentava in campo con una “panza da commercialista” e ciò nonostante riusciva spesso a stendere avversari con la sola forza del braccio. Come il fantasista che gioca da fermo e segna spesso. La spalla gli ha detto no, lasciandogli una carriera con rimorsi e rimpianti, che è sempre meglio non farsi mancare nulla.
Olivier Rochus, invece, era un buono, ma nonostante fosse calmissimo per me ha sempre rappresentato la rabbia. Non la sua, la mia. Già, perché vedere cotanto rovescio preso a pallate da un Berdych qualunque mi trasformava istantaneamente in forcaiolo che invocava il ritorno delle racchette di legno. Facile prendersela coi più piccoli. Alla fine del 2014 smetterà.
Tra poco andrà anche zio Roger, tempo qualche anno. Per tanto tempo con sadismo involontario ha centellinato i suoi colpi di genio in nome di un gioco più vincente ed efficace. Fosse stato un giullare le nostre cornee sarebbero state permanentemente in estasi ma avrebbe vinto molto di meno, quindi forse è stato giusto così.
E cosa ci resterà dopo? Ci resterà forse uno Youzhny che ogni tanto si apre la testa a racchettate per ricordarci che anche i tennisti sono umani, e uno svagato Gulbis che, però, sembra drammaticamente prossimo a mettere la testa a posto. E ci resteranno grandi mazzate, conferenze stampa politically very very correct, atleti seri con programmi seri e un atteggiamento serio da atleta serio. E ogni tanto il Dolgopolov di turno a ricordarci che esiste anche il tennis.
Perché il tennis non pecca più come una volta?
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