(Roberto Cadonati, Andrea Arnaboldi e coach Fabrizio Albani)
di Michele Alinovi
Abbiamo parlato con lo psicologo e psicoterapeuta Roberto Cadonati, uno dei più grandi mental coach sportivi italiani. Dopo gli studi all’Università di Siena, ora insegna da anni Psicologia dello Sport e Psicologia della Percezione; ha seguito squadre di calcio italiano delle massime serie, team stranieri di hockey sul ghiaccio ma anche golfisti e atlete del pattinaggio artistico. Notevole il suo contributo al tennis italiano: qualche anno fa ha iniziato a seguire Paolo Lorenzi, allora a ridosso della 500esima posizione, che in breve tempo è riuscito a fare progressi miracolosi arrivando fino alla 49esima. Attualmente sta seguendo il milanese Andrea Arnaboldi, un altro che sta facendo molto bene nonostante i problemi fisici che l’hanno fermato in questa stagione. Gli abbiamo fatto alcune domande sul mental coaching e sul tennis in generale.
Secondo lei quanto conta il ruolo di mental coach nel team dei tennisti professionisti e quanto può influire positivamente sulle loro prestazioni?
Soprattutto negli ultimi anni è diventato un ruolo fondamentale: ormai tutti i top-player ne hanno uno. A parità di capacità tecnico-tattiche, ciò che fa la differenza nel tennis di alto livello, così come in molti altri sport individuali, è la capacità di mantenersi positivi nei momenti topici della partita, gestire l’ansia, la pressione e le aspettative. A volte bastano pochi istanti per decidere la vittoria o la sconfitta di un match durato tre ore: durante il match sei solo, devi costruire e fare accadere certe cose. Un esempio tra i più clamorosi è l’invasione nella semifinale al Roland Garros 2013 tra Rafa Nadal e Novak Djokovic. E’ inevitabile la presenza del caso, ma il grande campione deve sapere sfruttare le energie positive in quei frangenti. Dal punto di vista fisico e tecnico non esistono enormi differenze tra i primi 30 del mondo e gli altri top-100: la differenza reale è l’atteggiamento mentale, rimanere lucidi e con i nervi saldi.
Andre Agassi ha speso parole molto positive per Tony Robbins, che lo ha aiutato durante il periodo di maggior crisi e a ritornare n. 1 del mondo; di lui ha detto: “Robbins è una persona straordinaria e probabilmente una delle più evolute grazie alla sua capacità di comprendere il mondo, gli individui e la natura umana. Lui sa perfettamente come far eccellere le persone e portarle alla vittoria!”.
Quello di Agassi è un caso emblematico di come anche un campione in età matura possa trarre benefici dal mental training. Io credo però che sia fondamentale iniziare dall’età giovanile, quando la personalità del futuro tennista non è ancora plasmata. Più precoce è l’avviamento di queste tecniche più diviene facile e automatico utilizzare schemi tecnici e mentali nel tempo. Un esempio è quello di Roger Federer, che ha iniziato a lavorare con uno psicologo sportivo dall’età di sedici anni: a inizio carriera mostrava spesso segni di rabbia e insofferenza, poi ha imparato a mantenere quella freddezza che gli ha permesso di vincere in modo costante ed avere sempre grandi motivazioni da quindici anni a questa parte.
Qual è, in pratica, l’obiettivo del mental coach?
Quello di aiutare il giocatore a costruire immagini positive del proprio tennis durante il match. Pensiamo a quanti colpi complessi e ad alto tasso di rischio un tennista deve eseguire durante una partita; normalmente per il tennista sono frutto di automatismi, bisogna solo correre e decidere dove mettere la palla in campo; a volte però accade che nella sua mente affiori un’immagine-ricordo di quella volta che ha sbagliato un determinato colpo in un momento molto importante di una partita precedente. Ciò che prima era facile ed eseguito con nonchalance, come una volée, tutto ad un tratto diventa complicato e sofferto. Il nostro compito è dissipare dalla mente del tennista questi piccoli ‘traumi’ negativi e sostituirli con la consapevolezza dei propri punti di forza e le risorse che variano secondo l’atleta. Così facendo si creano le condizioni per mantenere uno stato interno positivo, che è strettamente collegato alle immagini che elaboriamo senza consapevolezza.
Con quali metodi lavora il mental coach in rapporto al team e con che frequenza?
Esistono varie tecniche che il mental coach utilizza sia a tavolino, a tu per tu con l’atleta, sia durante gli allenamenti, in stretta collaborazione con l’allenatore e il preparatore atletico. In campo si lavora su colpi tecnici specifici che funzionano meno bene, in modo che diventino più automatici e migliori l’autostima nelle proprie capacità. E’ molto importante cercare di ricreare il clima e le dinamiche della partita, in modo che l’atleta faccia delle scelte di ricerca della palla e delle traiettorie nel giro di pochi istanti. Il mental coach viene chiamato durante vari periodi della stagione, soprattutto in quelli di maggiore difficoltà o in occasione dei tornei più importanti.
Perché in Italia esiste una certa reticenza a riconoscere la vostra professione?
E’ una questione culturale: da noi si è più diffidenti rispetto alla psicologia e siamo fissati all’immagine dello psicologo clinico, che si occupa cioè delle patologie mentali. Facciamo fatica a capire l’importanza di una figura come il mental coach, che lavora su una testa che già ‘funziona bene’ per farla funzionare meglio e stabilizzare la sua performance nel tempo. Io ho insegnato a lungo Psicologia dello Sport all’Università di Siena e ho notato che c’è molta diffidenza anche da parte degli psicologi stessi, i quali sono ancorati a una visione antica della professione. Il mestiere di mental coach non è ancora riconosciuto sul piano universitario, non è necessario un ‘patentino’: per questo molti si improvvisano, spesso con risultati disastrosi.
Lei ha seguito atleti di sport diversissimi come il golf, l’hockey e il calcio. Esistono problematiche comuni alle varie discipline?
Se si esclude l’ovvia differenza tra sport individuale e di squadra (dove si lavora sulla gestione dello spogliatoio e la solidità del gruppo), alcune problematiche sono trasversali: l’autostima, auto-efficacia e soprattutto la necessità di accettare e dimenticare l’errore, l’insuccesso. Il tennis è uno degli sport più crudeli che conosca: l’atleta, nella sua solitudine, deve contare solo sulla propria mente. Puoi vincere il primo set 6-0 ma se ci si abbatte per la prima reazione dell’avversario, per un proprio errore grave o per un colpo sfortunato, i valori in campo si possono capovolgere senza via d’uscita.
Quali sono i mental coach che stima particolarmente?
Il migliore credo sia Bruno De Michelis, che ha lavorato con il Milan e il Chelsea e fra gli stranieri Bob Rotella, uno dei massimi esperti per quanto riguarda il golf.
Parliamo di Fognini. Fino a che punto la sua rabbia è controproducente?
Mostrare la propria rabbia può essere uno strumento tecnico per darsi la carica o per innervosire l’avversario: non sarà corretto ma è contemplato, un po’ come le grida delle tenniste. L’importante però è utilizzarla con la consapevolezza di quello che stai facendo e delle conseguenze successive. Ad esempio, John McEnroe era uno molto capace nei momenti in cui andava down a innervosire l’avversario a proprio vantaggio: le interruzioni del gioco, le polemiche con l’arbitro, il coinvolgimento del pubblico, erano strumenti atti a interrompere gli schemi e le sicurezze dell’avversario, farlo innervosire e superare i momenti critici. La rabbia di Fognini invece è irrazionale e totalmente autodistruttiva. Capita che in certi giorni non si riesca ad entrare in partita e si sia spaccati emotivamente, ma bisogna mantenere self control e sfruttare tutti i mezzi a disposizione per vincere. L’arrabbiatura è uno di quelli, ma va usata con consapevolezza, cognizione di causa e nel momento adatto. Bisogna distinguere il fare dall’essere: posso fare l’arrabbiato senza esserlo, ma bisogna distinguere i due piani. Fognini potrebbe essere un top 5.
Quali soluzioni proporrebbe per Fabio?
Bisognerebbe capire da dove ha origine il suo problema; per esempio molti momenti di rabbia hanno origine da situazioni scolastiche, ad esempio, particolari modalità reattive con i genitori. Questi tipi di atteggiamenti hanno richiami molto radicati nella persona. In generale nello sport i limiti mentali che gli atleti si creano derivano da rapporti difficili con gli insegnanti e gli insuccessi scolastici: a volte in questi casi anche il rapporto con il coach, che è di norma molto stretto e quasi intimo, diventa molto complicato, così come succede tra i padri e i figli. Tutto ciò influisce negativamente sulla performance di gioco. Bisogna capire le cause di alcuni atteggiamenti e cercare di trasformare la reazione distruttiva con una costruttiva, a partire dal rapporto con il proprio coach e tutto il team: ormai oggi il grande campione è una squadra, che deve avere massima fiducia e solidità.
Sara Errani invece mentalmente è spesso una roccia…
Sì, ma per me Errani è un altro potenziale non ancora totalmente espresso. Sara è una persona stupenda e ha già raggiunto risultati oltre ogni aspettativa, ma credo che possa ancora migliorare certi aspetti mentali in termini di autostima e di consapevolezza di sé, diventando un po’ più aggressiva e sicura nel suo gioco.
Alcuni anni fa ha iniziato a collaborare con Paolo Lorenzi, che sul piano mentale è tra i migliori nel tennis italiano e ha raggiunto risultati insperati. Come vi siete conosciuti e come spiega i successi di Paolo?
Ho conosciuto Paolo qualche anno fa mentre insegnavo all’Università di Siena. In quel momento era n. 488 del mondo. Insieme abbiamo scommesso che sarebbe entrato negli 80. Sembrava impossibile, ma c’è riuscito. Lorenzi è un bravo ragazzo, un grande lottatore, soprattutto dal punto di vista mentale, su cui abbiamo lavorato assieme al suo ottimo team, a cominciare dal coach Claudio Galoppini. Lorenzi ha saputo portare i propri obiettivi a livelli che neppure lui credeva di raggiungere. Uno che spara in alto prima o poi arriva, non deve avere paura di elaborare delusioni o limitare le ambizioni dopo i primi insuccessi, come spesso accade. Molti tennisti finiscono per accontentarsi di navigare tra la 200esima posizione credendo che quello sia il loro picco massimo, costretti a fare una vitaccia senza soldi e povera di soddisfazioni. Bisogna cambiare prospettiva; non si tratta di vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, che alla fine è un modo di accontentarsi. Con il pensiero positivo si cerca di concentrarsi su ciò che funziona, migliorarsi e realizzare i propri obiettivi. Non è solo un metodo, ma deve diventare uno stile di vita: del resto il tennis è una metafora della vita, dove il tuo ‘avversario’ può essere il tuo capoufficio e i tuoi sogni cambiano, ma uguale è la modalità per realizzarli.
Da un anno sta lavorando con Andrea Arnaboldi, che ha parlato molto bene di lei. Quali sono i vostri prossimi obiettivi?
Con Arnaboldi abbiamo creato un progetto ambizioso. Purtroppo quest’anno è stato limitato da due infortuni e un piccolo intervento. E’ dovuto stare fermo un mese e mezzo dopo lo stiramento alla spalla nelle qualificazioni di Wimbledon durante il match contro Matteo Viola. Questa settimana finalmente è tornato a San Marino; ha perso al primo turno contro Volandri strappandogli un set. Nonostante questi incidenti di percorso siamo fiduciosi: quando ho iniziato a collaborare con lui era 340 del ranking, ora è n. 180. Il nostro obiettivo è entrare nella top 100 entro fine anno.
(Andrea Arnaboldi – Foto Nizegorodcew)
Chi è il giocatore ideale per ogni mental coach?
Senza dubbio Rafael Nadal. Ha una voglia di vincere, un killing instinct superiore a tutti gli altri. Un po’ come il grande ciclista Eddie Mercx, detto il “Cannibale” per la sua avidità di vittorie. Non concedeva mai nulla, neanche nelle gare minori dopo i Tour, che normalmente servono per far guadagnare punti ai gregari.