di Marco Mazzoni
Simone Bolelli ha ricevuto una Wild Card per il tabellone principale del Master 1000 di Montecarlo. Una notizia bellissima, per certi versi sorprendente, per altri no. Il bolognese è da troppo tempo ai margini del grande tennis in singolare, e in classifica ci sarebbero stati molti altri tennisti francesi (o italiani, se vogliamo) “meritevoli” di un invito. Ma Simone nel Principato è di casa, spesso si allena al club nella off season. E un certo Roger Federer lo sceglie sempre per allenarsi nei giorni precedenti all’inizio di un torneo, perché la palla di Simo è così bella piena e pesante da esser ideale per trovare ritmo. Ho avuto la fortuna di assistere ad un loro allenamento, davvero un piacere per gli occhi. Già nel 2010 il bolognese ottenne un invito per il primo Master 1000 su terra, quindi non è una novità assoluta. Se a questo aggiungiamo che una buona metà del pubblico che ogni anno affolla il Country Club monegasco è italiano, ecco che si spiega la scelta degli organizzatori, che applaudo in modo convinto.
Bolelli infatti è un tennista particolare, che ha vissuto una storia davvero particolare ed a cui non si può volere male. L’appassionato medio l’ha sempre seguito con estremo interesse, non solo perché è davvero un bravo ragazzo ma perché sa giocare a tennis maledettamente bene. Nella sua cavalcata esaltante che nel 2008 lo portò davvero ad un passo dai grandi ha fatto vedere momenti di tennis alto, replicando anche nei rari momenti successivi in cui è stato “bene”. Veder uscire la palla dalle corde della sua racchetta è un’esperienza notevole per chi ama il tennis, soprattutto quello classico senza eccessi di rotazione. Il suo timing, la capacità di trovare angoli ed entrare nella palla dandole forza e angolo è da grande giocatore. Purtroppo questo non è bastato a garantirgli una carriera di valore pari alla sua classe tecnica, per una sfortuna atavica che da sempre lo perseguita, sommata ad altri limiti fisici e mentali che si è portato dietro e che non è mai riuscito a piegare alla voglia di emergere e far esplodere il proprio talento. Sono da sempre convinto che senza i tanti infortuni che ha sofferto la sua carriera avrebbe prima o poi svoltato verso ottimi risultati. Non so dire “quanto” grandi, ma uno col suo tennis restando sano, motivato e ben allenato non sarebbe rimasto per sempre ai margini dei grandi tornei.
Parlare della sua storia tennistica e dei tanti problemi che l’hanno afflitto, impedendogli di volare altissimo e di restarci, è affare serio e per certi versi doloroso. Non voglio tornare sulla brutta faccenda Davis del 2008, di cui si è parlato fin troppo e che certamente ha lasciato ferite dure da rimarginare, vissute proprio nel momento più fertile della sua ascesa. Torno invece sull’ultimo infortunio, quello del 2013, che per l’ennesima volta ha interrotto la sua risalita. Ricordo benissimo lo sguardo spento di Simone nell’angusta saletta 4 delle interviste di Parigi lo scorso anno, quando con un filo di voce e la morte nel cuore ci raccontò il dolore del nuovo problema al polso. Ogni parola che pronunciava era pesante come un macigno, era amara come la fiele per la delusione di esser di nuovo di fronte a mesi difficili, da passare lontano dai campi tra riabilitazione e la speranza di tornare come prima. Provò a contenere il problema, ma niente. Fu di nuovo operazione, l’ennesima di una carriera martoriata da un numero di problemi assurdo, che avrebbe stroncato un toro o che l’avrebbero elevato ad ideale testimonial del “mitico” dottor Gibaud… non proprio la principale ambizione di uno sportivo. Un infortunio davvero maledetto perché Simone nella primavera del 2013 stava giocando bene, e qualche segnale che potesse essere l’annata giusta per risalire e togliersi delle soddisfazioni c’era eccome. Niente. Di nuovo mesi e mesi di stop, quando per uno come lui la continuità di gioco e di prestazioni sarebbe stata la miglior medicina per rinvigorire corpo e spirito. Un ragazzo che avrebbe avuto assoluto bisogno di una serie di risultati positivi per ritrovare morale e spingere a tutta. Ha sofferto in silenzio, è tornato ad inizio anno e s’è tolto la grandissima soddisfazione di vincere quest’anno un Challenger di alto livello come quello di Bergamo (battendo due ottimi giocatori come Brown e Struff tra l’altro).
Per molti Bolelli ha deluso, non riuscendo ad ottenere risultati vicini a quel che prometteva. Sui numeri questo è vero, ma credo da sempre che numeri e carriere vadano sapute leggere ed interpretate, perché i numeri non dicono tutto, non hanno un anima. E il tennis in particolare è una disciplina terribilmente umana, in cui la forza interiore riveste un’importanza eccezionale, superiore a tanti altri aspetti tecnici per poter emergere e durare in una competizione così spietata.
Credo che Bolelli negli anni ha sofferto troppo, e solo con una durezza d’amino che forse non gli appartiene fino in fondo sarebbe potuto uscire dal vertice perverso in cui s’è trovato dentro. Forse ha preso anche qualche scelta sbagliata che non l’ha aiutato, ma soprattutto ha subito una malasorte troppo nera per esser vera e superarla senza danni.
Personalmente ho sempre creduto che il suo limite principale stia nella lentezza del primo passo, che troppo l’ha penalizzato alla risposta, la parte più lacunosa del suo tennis. Non essendo la velocità di piedi e reattività la sua dote migliore, in un tennis così fisico e veloce come quello attuale diventa troppo difficile difendersi. E’ altrettanto difficile tenere sempre in mano il pallino del gioco, quindi avrebbe dovuto non solo migliorare in difesa ma costruirsi un colpo difensivo “furbo”, con cui ribaltare l’inerzia dello scambio, e che invece gli è sempre mancato. Ho sempre ritenuto (proprio per questo) che la terra fosse la sua miglior superficie, perché gli consente quella frazione di secondo in più per poter arrivare col giusto timing sulla palla e sparare le sue bordate piatte, bellissime e potenzialmente vincenti. Forse gli è anche mancata intensità, quel fuoco, quella cattiveria e decisione per imporsi nei momenti in cui “girava bene”, e per reagire con ancor più vigore in quelli in cui “girava male”, che sono stati numericamente tantissimi. Troppi.
Resterà sempre il dubbio di che carriera Simone avrebbe potuto vivere se fosse rimasto sano. Con più fortuna e la possibilità di lavorare bene nel tempo, con uno staff fidato che credeva in lui, credo che avrebbe potuto togliersi buone soddisfazioni, e restare nel tennis che conta per molto più tempo del lampo in cui c’è rimasto. Probabilmente alcuni limiti strutturali avrebbe avuto difficoltà a superarli, ma tantissimi altri sì, e quindi crescere. Crescendo si ottiene fiducia, e quindi con la fiducia si acquista forza, tantissima forza per andare anche oltre ai propri limiti, attivando un vero circolo virtuoso. In questo Simone è stato troppo sfortunato, non riuscendo mai a trovare un lasso di tempo abbastanza lungo e stabile per lavorare bene e migliorare, come tennis e dentro di sé, trovando fiducia e “fuoco”.
Adesso arriva questa chance, di poter tornare ad assaggiare il grande tennis a Monte Carlo. Il sorteggio appena effettuato l’ha collocato nella parte bassa nello spot di Tsonga (n.9 del seeding), dove se la vedrà contro il tedesco Kohlschreiber. Un match non facile (ma in un 1000 di match facili non ce ne sono!), perché il tedesco è giocatore sveglio, abile, muove molto il gioco e ci prova sempre fino alla fine; però non è un “martello”, come i toppatori di potenza, un tipo di giocatore che Simone ha sempre sofferto; e “Kolhi” a volte entra in vortici di errori, quindi è una partita giocabile. Poteva andare a filo meglio (il giovane Thiem – che adoro – per esempio è wild card ed ha trovato Mahut…), ma poteva anche andare molto peggio. Nessuno gli chiederà di vincere la partita, ma di giocarla alla grande, provandoci fino in fondo. L’attenzione su di lui sarà tanta, perché in tanti l’hanno sempre seguito con affetto e stima, nonostante tutto. Gli auguro di godersi questa grande occasione, e soprattutto di ritrovare sulla terra del Country Club più che la vittoria quelle sensazioni che per un tennista sono tutto. Sensazioni che possano fargli credere che a 29 anni non si è ancora pronti per la pensione, e che il tempo per riprendersi (almeno in parte) quello che la sfortuna gli ha tolto c’è ancora.
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