di Sergio Pastena
Se c’è qualcosa in cui il tennis francese è inimitabile, è la capacità di produrre perdenti di successo in serie.
Non è un’opinione personale, è semplicemente storia: passata l’era d’oro dei quattro moschettieri i cugini d’oltralpe si sono sempre fermati a un passo dal traguardo, con l’eccezione di Yannick Noah. Si parte dalla stesa di Proisy nel Roland Garros del 1972, passando per quella di Leconte nello stesso torneo e quelle di Pioline a Wimbledon e agli Us Open, per arrivare a Tsonga agli Australian Open. Sempre lo stesso finale, sempre sconfitte in finale.
Eppure il caso di Julien Benneteau è particolare, ai limiti ormai del patologico. Sono note le nove sconfitte di fila di Pioline prima del primo urrà, ma il buon Cedric le ha collezionate tutte prima di compiere 27 anni e dopo si è parzialmente rifatto portando a casa cinque titoli. Julien, invece, la prima finale l’ha raggiunta a pochi mesi dai 27 anni, al termine di una carriera a carburazione lenta che lo ha visto per la prima volta emergere nel Roland Garros del 2006 con dei sorprendenti quarti di finale.
Dicevamo della prima finale, nel 2008 a Casablanca. Sconfitta in due set contro Simon, nessuno si sorprende troppo. Stessa cosa quando, pochi mesi dopo, Benneteau cede in casa a Lione contro Soderling, portandolo al terzo set. Questione di tempo, avran pensato molti transalpini, ma un titolo se lo porta a casa sicuro. Qualche dubbio è cominciato ad affiorare quando, nei tre anni successivi, Benneteau ha perso una finale a stagione: a Kitzbuhel contro Garcia-Lopez, di nuovo in casa a Marsiglia nel derby contro Llodra, a Winston-Salem con Isner. Quota sei finale perse, mica roba da poco.
Quello che ha fatto maturare la certezza è stato l’ultimo atto del torneo di Sidney del 2012: di fronte Benneteau e Jarkko Nieminen, uno che fino a quel momento aveva disputato undici finali vincendone solamente una. La classica partita che la guardi e pensi che troveranno il modo per perderla entrambi. E invece a vincere in due set fu proprio il finlandese, lasciando Benneteau nello sconforto. Per inciso, la carriera del francese andava comunque avanti con un rendimento tutt’altro che disprezzabile per un tennista ormai trentenne: due vittorie su Federer e una gran performance contro lo svizzero a Wimbledon, qualche successo in doppio, un best ranking al numero 26.
Manca l’acuto, che non arriva né a Kuala Lumpur nel 2012 né a Rotterdam nel 2013, quando a battere Julien è Del Potro nella finale di un Atp 500. E si torna in Malaysia, ultimi giorni: avversario il portoghese Sousa, che sta bene ma, diciamocela, non è certo Djokovic né tanto meno Del Potro. E Benneteau vince il primo set e nel secondo, sul 5-4, ottiene una palla break-match point. Stavolta, signori, la mano non gli trema. Lo gioca bene quel punto Julien, fa di tutto per mettere fuori combattimento l’avversario ma viene fulminato da un passante di quelli che ammazzano una carriera.
Finisce 6-4 per Sousa al terzo, il Benneteau che si presenta in conferenza stampa è comprensibilmente annichilito. Se di volta in volta la colpa era stata della mancata maturazione, dell’avversario forte o del braccio che tremava, stavolta il francese non aveva niente da rimproverarsi. Sembra che il destino abbia voluto metterci del suo, e per l’ennesima volta ci si ritrova a pensare che difficilmente lo troveremo di nuovo in una finale Atp, almeno fino alla prossima smentita con sconfitta annessa.
No, essere Benneteau non deve essere per niente facile, anche se a sentire questa frase un tennista da Challenger potrebbe strangolarmi. Ma provateci voi a correre dietro al traguardo, senza fermarvi mai, avendolo sempre lì ad un palmo con la consapevolezza che a fine carriera non avrete neanche una tacca sull’albo d’oro del singolare.
Massima stima per la tenacia, caro Julien.
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