di Luca Brancher
Io non credo nel destino. Ed il mio atteggiamento è soprattutto dettato dall’ignoranza. La mia, particolare, nei confronti di un qualcosa che non ho mai voluto approfondire. Tematiche esageratamente poco razionali da non avermi mai attirato in maniera convincente. Limite mio. Limite loro. Ha poca importanza. Credo, però, nella forza di volontà, nella voglia di reagire e nella fermezza delle intenzioni umane. Non perché io ne sia un degno rappresentante, anzi, tutt’altro, ma è proprio questa mia particolare manchevolezza caratteriale a spingermi ad idolatrare chi fa invece buon uso di tale peculiare dote umana.
Non penso, in verità, di essere soltanto io ad esserne attratto, ma la maggior parte di noi, perché è piuttosto naturale e sintomatico vedere in queste situazioni una metafora incoraggiante “Possiamo ottenere quello che votiamo, se lo vogliamo”. Il punto sta lì, volerlo veramente. Gabbare il destino – ops, sì, ci sono caduto anche io – è pane per pochi arditi. E’ chiaro che se parliamo di tennis, perché a questo mondo, in fondo, apparteniamo, abbiamo tutti una sorta di venerazione per i grandi campioni, ognuno assecondando il proprio gusto. C’è chi ama Federer, chi Nadal, chi Djokovic, così come un tempo si poteva parteggiare per Sampras, Becker, Agassi o Edberg. Il tennis nelle sue infinite declinazioni tecnico-tattiche.
Poi trovi quelle situazioni che nascono su un campo da gioco, ma che finiscono con l’esulare da esso e diventare una sorta di paradigma di cosa vuol dire vivere e vincere. Non una partita, non un torneo. Qualcosa di più. Si è soliti dire che il peggior avversario che un giocatore puoi incontrare è se stesso, ma io non sono completamente d’accordo. E’ sicuramente vero, basti vedere certi talenti incostanti – ne cito tre, da Paire a Fognini passando per Gulbis – ma ci può essere di peggio. Ce lo hanno spiegato in tanti, ormai, ricordandoci la storia del povero Brian Baker. Non ha più interesse, ormai, ricordare quanti infortuni e susseguenti operazioni il ragazzo di Nashville ha dovuto patire, lo hanno scritto in molti, peraltro prima dell’ultimo patatrac, che sembrava aver posto la parola fine ad ogni velleità. La classica bella storia con finale triste, con quel fondo di amarezza che tutto d’un tratto annullava 18 mesi esaltanti, in cui Brian, rientrante dopo 4 anni di inattività ed ormai al servizio dell’università più vicina alla sua dimora familiare nel Tennessee, aveva impressionato, raggiungendo la seconda settimana di Wimbledon ed incantando tutti. Col suo tennis, con la sua storia. Era tornato, aveva abbattuto la soglia dei top-100, colto un risultato grandioso nel tempio del tennis ed anche una finale ATP, a Nizza.
A dirla tutta, dopo quei risultati straordinari, Brian aveva vissuto un passaggio a vuoto, sintomatico per chi in 12 mesi era passato dal “dai, proviamo” al top dell’etile. Nulla di grave, doveva soltanto somatizzare la sua nuova dimensione. Il problema, uno nuovo, tanto per cambiare, è sorto quando proprio tutto volgeva per il meglio e Baker pareva prossimo ad aggiungere nuove pagine gloriose al libro della sua carriera. A Melbourne, Australia, dopo aver battuto il fu connazionale Alex Bogomolov, l’ex speranza targata USTA si vedeva costretto ad un nuovo ritiro, dopo un primo set vinto sul compatriota Sam Querrey, per un serio infortunio al ginocchio. La sua uscita dal campo è una delle fotografie più brutte che quest’anno ci lascerà in eredità. Alla porta dell’uomo che sembrava aver messo al tappeto tutte le miserie della vita sportiva tornavano a bussare antichi fantasmi, in maniera ancora più esasperata rispetto ad un tempo. Questa volta era finita davvero, lo abbiamo pensato tutti, lo ha fatto anche lui. Lo scetticismo imperava, ed a ragione.
Se le qualità di un uomo si valutano nelle difficoltà, il buon Baker ha avuto modo, in questi 28 anni di vita, di testarle a fondo e se, poco meno di 7 mesi dopo, si è ripresentato al via della competizione challenger di Aptos, lo stupore può averci pervaso per un primo momento, ma la consapevolezza che sarebbe stato lui il candidato ideale di una nuova emersione dagli inferi sportivi non ci aveva abbandonato completamente. La vittoria su James Duckworth è stato un importante segnale che la partecipazione al torneo californiano non era stata frutto di improvvidi e frettolosi calcoli, ma è il successo contro Denis Istomin – altro giro, altra storia – nell’importante kermesse nella Queen City l’acuto che ha portato nuovamente a chiudere il cerchio. Brian è qui, pronto, nel caso, a superare qualche altro record – d’altronde l’entrata nei 50 era veramente ad un passo prima della rottura del ginocchio.
Quando lo scorso anno scrissi alcuni articoli su di lui, subito dopo la finale da qualificato a Nizza, qualcuno, in maniera del tutto esagerata, mi attribuì una sorta di “primogenitura” nell’universo-Baker, situazione che sicuramente mi galvanizzava – c’è da dire che non lo farebbe a torto, ma il seguirmi ogni avvenimento pro aiuta anche in questo genere di imbeccate, senza contare i “granchi” raccolti – ma che ritengo limitante, perché il personaggio Baker è giusto che venga trattato e condiviso dai maggiori divulgatori della disciplina del tennis. Anzi, dirò anche di più: io lo porterei proprio come esempio di vita nelle scuole. Assieme ai libri di storia e geografia, anche una bella lezione sul cosa vuol dire credere nelle proprie qualità, che poi in fondo è la chiave principale per non avere delusioni dalla vita.
L’uomo più ambizioso spende un’intera vita per conoscere i propri limiti, Brian Baker non solo li ha conosciuti, ma ha scoperto come superarli. Chapeau
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