Di Lorenzo Andreoli
“Il Giappone, cascasse il mondo, non perde mai la calma” scriveva Ercole Patti nel lontano 1975.
Appena due anni prima, dall’altra parte del mondo, nasceva il Japan Open Tennis Championships, il più “anziano” dei tornei che si disputano nell’estremo oriente.
E’ sufficiente interpellare uno qualunque fra i protagonisti (recenti e meno recenti), per cogliere in pieno l’aura di storia e tradizione che l’attuale Rakuten Japan Open porta con sé da ben 42 anni.
Anche quest’anno, come sempre, arriva al termine di una lunga, logorante stagione. Dopo le settimane di Coppa Davis e dei più “piccoli” tornei europei di Metz e San Pietroburgo (entrambi “ATP 250”), il torneo giapponese rientra in quella mini (ma non troppo) tournée asiatica, oggi più che mai sintomatica della voglia del circuito di allargare i propri orizzonti e di globalizzare uno sport dal sapore ancora troppo occidentale.
Si disputa contemporaneamente al China Open di Pechino, rispetto al quale, fino al 2009, è stato decisamente più prestigioso. Longevità a parte (a Pechino si gioca dal 1998), il torneo di Tokyo era superiore anche quanto alla categoria (ATP International Series Gold, mentre Pechino era solo un ATP International Series).
Dal 2009 (anno in cui Shanghai ha perso il “suo” Master di fine anno) i due tornei sono stati equiparati e a risentirne è stato indubbiamente quello che si disputa nella terra dei Samurai: prize-money della metà ($1.263.405, contro i $2.700.000 cinesi) e conseguente fuga dei big. Occorre semplicemente sbirciare fra i tabelloni di quest’anno per notare come a Tokyo siano andati solo tre “top 10” (Wawrinka, Simon e l’idolo di casa Nishikori) in luogo dei cinque presenti in Cina (Djokovic, Berdych, Nadal, Ferrer e Raonic).
Passando al “campo”, ciò che stupisce è, come nella miglior tradizione giapponese, la struttura. Teatro delle sfide è il mastodontico Ariake Colosseum, un complesso di ben 48 campi in cemento il cui campo centrale è dotato di uno dei primi tetti retrattili mai realizzati.
Storia e tradizione si respirano anche sfogliando l’albo d’oro del torneo, in una curiosa alternanza fra carneadi e plurivincitori di Slam. Nella prima, storica edizione, a trionfare fu Ken Rosewall nel derby tutto australiano con John Newcombe. Il detentore del maggior numero di titoli è lo svedese Stefan Edberg, che ha vinto quattro delle cinque finali consecutive (dal 1987 al 1991) disputate, seguito da Pete Sampras (che nel 1993 sconfisse Brad Gilbert, storico coach di Andre Agassi) con 3 trofei.
Curiosamente, dal 1994 (anno in cui “Pistol Pete” regolò Michael Chang con un 6-4 6-2) nessuno è più riuscito a confermarsi campione; ci si è avvicinato solamente lo spagnolo Rafael Nadal, campione nel 2010 ma sconfitto in finale l’anno successivo per mano di Andy Murray.
L’ultimo a scrivere il proprio nome nell’albo d’oro del torneo è stato il padrone di casa Kei Nishikori, che dopo oltre due ore di battaglia ha avuto la meglio del canadese Milos Raonic (7-6 4-6 6-4), alla sua terza finale consecutiva.
Last but not least, la bandierina azzurra che nel 1978 piantò il nostro Adriano Panatta, quando in una finale senza storia ebbe la meglio sullo statunitense Pat Dupre (il quale solo un anno più tardi, a Wimbledon, gli avrebbe inflitto la più dolorosa sconfitta della sua carriera) col punteggio di 6-3 6-3, vendicando il compagno di Davis Barazzutti, caduto appena due anni prima sotto i colpi del “bombardiere di Chattanooga”, Roscoe Tunner.
Leggi anche:
- None Found