di Cesare Veneziani
Mise la borsa nel portabagagli e si alzò sulle punte. Afferrò il portellone e lo accompagnò fino al gancio, lentamente, senza farlo sbattere. Su certe cose Niki era molto preciso. Entrò in macchina, prese posto e mise subito mano alla radio. Suo padre disse “forza, andiamo” e in un attimo ingranò la marcia che li avrebbe portati dritti al Tennis club Santa Marinella.
Quel giorno Niki era impegnato nel match di quarti di finale di un Torneo Nazionale di terza categoria. Si trattava del “Memorial Lunardi”, in onore del giovane tennista scomparso prematuramente qualche anno prima. Durante il suo cammino, Niki si era sbarazzato di un paio di pippe, come le chiamava il padre, e di un certo Fabio Tondini, temibile rematore dal rovescio bimane. Niki ci aveva perso tre volte su tre senza mai riuscire a strappargli un set. Era la sua bestia nera.
“Allora, sei carico?” si sentì domandare Niki dopo un silenzio abbastanza lungo. Sembrava la classica domanda per rompere il silenzio ma in verità Sergio cercava solo di capire cosa volesse ottenere suo figlio toccando in continuazione le manopole dello stereo. Il continuo armeggiare di Niki con gli alti, bassi e medi, il gain e il misterioso fader, lo innervosiva.
“Sto provando a trovare il suono migliore.”
“Cioè?”
“Cioè quello più morbido. Uhm, più vinilico. Non è che se lasci i bassi a meno tre fa lo stesso effetto che si li piazzi a più cinque, no?”
“Che vuoi dire?”
“Non ti preoccupare pà, sono carico” tagliò corto Niki.
“Perfetto” e silenzio.
“Piuttosto” riprese poi Sergio “oggi ci sono i quarti di finale. Giochi con quel cacchio di Mastu. L’ho visto il mese scorso, è veramente un gran lottatore. Senti, mi chiedevo se ti sei preparato be…”
“Tutto bene. Tranquillo, sto benissimo. Ieri sono andato a letto presto e stamattina ho fatto stretching e un po’ di yoga e a pranzo ho mangiato una mega insalata e tanti carboidrati. Sono praticamente al top.”
“Perfetto” disse Sergio con fare sbrigativo, ripulendosi in qualche modo quel po’ di coscienza sporca con la velocità. Cambiò orbita: “ah, senti un po’, sei proprio sicuro che lo yoga serva a qualcosa?”
Ok, forse l’orbita era sempre quella ma il satellite era un altro.
“Si” fece Niki, più annoiato che altro “mi serve per allentare la tensione e…” si fermò un attimo, come a cercare le parole giuste. Con suo padre, quando non capiva qualcosa, gli serviva sempre una dose di chiarezza e una di zucchero. Era sempre così. Le trovò e concluse “è utile per cercare se stessi.”
Anche se faceva domande Sergio non era preoccupato. Fra l’altro era inutile, perchè Niki era sempre molto motivato e rigoroso nella preparazione delle partite e sul tennis in generale, sempre attento ai minimi particolari.
Pensando a Niki e al suo rapporto col tennis, Sergio si figurava un adulto grigio, con pochi capelli e gli occhiali. Un uomo sostanzialmente brutto, che amava starsene chiuso in camera a legare i nastri alla racchetta e a disegnare grandi “n” sulle corde gialle con quel grosso pennarello Head.
Mentre ripensava a quell’idea, Sergio continuava a macinare chilometri che erano tutti per il figlio. Sentì una piccola fitta di dispiacere, ritornando a quelle immagini, anche perché cozzavano col suo sentimento, e con la realtà. Poi, fortunatamente, realizzò una parte di verità: l’amore, se è vero, alla fine prende il sopravvento. Puoi avvelenarti e contorcerti quanto vuoi ma alla fine l’amore ti prende e ti porta via. Ti prende alla gola. Sorridendo al parabrezza si disse: “è inevitabile”.
Solo, quella storia dello yoga proprio non gli andava giù. Gli sembrava una cosa inutile e complicata. Una di quelle cazzate da intellettuali che odiano lavorare, non una cosa da atleti di belle speranze.
Lo yoga è per gente alla Woddy Allen pensò Sergio, probabilmente ignaro del fatto che il figlio possedeva buona parte dei suoi film.
“Non ti preoccupare pà, andrà bene” disse Niki d’un tratto, chiudendo definitivamente l’argomento preparazione al match e aggiungendo un laconico “me lo sento”.
“Guarda che sono tranquillissimo” si affrettò a rispondere l’uomo, ancora impallato sullo yoga e la sua effettiva utilità “era giusto per fare due chiacchiere…”
“Uh uh.”
L’argomento morì sul nascere e Sergio inserì la quinta. Strinse le mani sul volante e si piazzò sulla corsia di sorpasso. Centosessanta e via, superando tutto il superabile. Se c’era una cosa che quell’uomo sapeva fare alla grande, quella era guidare.
Fintanto che Roma e le sue branchie svanivano alle spalle dei due, Niki teneva gli occhi chiusi. Fissi sul campo da tennis che ancora non c’era ma che forse, un giorno, ci sarebbe stato. Immaginando servizi tagliati e grandi rincorse, discese a rete e colpi vincenti e, alla fine del punto, gli applausi convinti del pubblico. Ogni volta, tutti per lui.
La macchina correva sulla strada scura e il sole tendeva a sparire, mentre Sergio tamburellava sul volante, fuoritempo, e frotte di piccoli insetti si andavano a schiantare contro il vetro della macchina. Bono ripeteva incessantemente “rockway, rockway… I will follow!” accompagnato dalla band e da un boato degno dell’Olympiastadion.
Siamo sicuri che anche gli insetti stessero inseguendo la via del rock?
Dopo mezz’ora senza parole e piena di musica e di strisce bianche che rullavano in mezzo alla strada Bono Vox sussurrò “one love, one life…” e la sensazione di un futuro straordinario avvolse Niki e la sua testa come un casco su misura: un casco rosso come la terra del Roland Garros. Rosso come il tappeto che avrebbe calpestato prima di arrampicarsi sul gradino più alto. Rosso come gli zigomi suoi, che quando faceva una bella cosa si vergognava sempre troppo. Nel 2007 potrei farcela, pensò. Erano solo nove anni. Sorrise appena, fiero del suo sogno.
Intanto c’era da vincere il torneo di Santa Marinella e per quanto Niki amasse sognare, in un batter di ciglia dovette abbandonare i trionfi parigini e l’agognata premiazione per tornare alla realtà dell’incontro che lo attendeva ma prima di ripassare la strategia che pensava di adottare contro il temibile Mastu, Niki si fece sfiorare dal pensiero della sua compagna di banco, una ragazza mora dal seno prosperoso, della quale aveva parlato al padre qualche giorno prima. Si trovavano in cucina. Stavano tutti e due in piedi. Il padre stava rovistando nel frigo in cerca di uova e prosciutto (il piatto del giorno quasi ogni giorno). Dopo una rapida descrizione fisica della ragazza, Niki aveva buttato lì il suo elaborato piano: “pensavo di portarla al cinema.”
“Mmmm. Che film?”
“Titanic, oppure un altro, non so…tu che ne pensi?”
“E che ti devo dire, figlio mio?” fece Sergio sospirando “se questa ti piace portala dove vuoi, ma ricordati che sei giovane…”
“Che vuoi dire?”
“Voglio dire: va bene l’amore ma se puoi trombatele tutte” e dopo richiuso il frigo con un colpo di tacco gli assestò un pugno sulla spalla che per poco non lo fece cadere. Ma non per la forza. E’ che Niki non se l’aspettava. Il padre non ci badò e quando vide che il figlio era ancora in piedi sentenziò: “che ogni lasciata è persa.” Niki rimase in silenzio per un po’. Dapprima imbambolato davanti al padre che ingoiava le sue uova piene di pepe, poi in camera sua, da solo, immerso in un silenzio solo apparente. Dalle cuffiette la sua voce preferita cantava la solita canzone in italiano. Anche se pianse poco, quel pomeriggio Niki capì molto. Capì la natura e i limiti del padre. Capì che in lui non c’era cattiveria, nè particolare violenza. Solo era diverso: una specie di extraterrestre che gli voleva bene e che metteva il pepe ovunque. Lo capì profondamente ma questo non gli evitò di sprofondare ulteriormente nei suoi dubbi. Quello fu l’ultimo giorno di Niki dell’ odio verso il padre.
Sergio invece era fiero di suo figlio. Anche se a volte non lo comprendeva, in qualche modo sentiva che il ragazzo si stava incamminando verso qualcosa di importante. Non solo per via del tennis (tuttavia, era sul campo che Niki andava a combattere ogni giorno) ma anche per gli occhi con cui il ragazzo guardava il mondo. Certo, pensò il vecchio, delle volte Niki era parecchio strano, con quella fissa per i film e la passione per gli scacchi. A volte gli tornava alla mente il periodo in cui Niki nominava solo Bobby Fischer.
“Mi dici chi cavolo è ‘sto Bobby Fester?”
“Fischer pà. Te l’ho detto mille volte: è un grande giocatore di scacchi, forse il più grande, famoso per essere finito a vivere in un parco di New York a bere e giocare a scacchi coi barboni.”
“Non è che stai parlando di Bobby Fester il cantante?” domandava ogni volta Sergio.
“No” ribatteva secco Niki “lo scacchista.”
“Ma un calciatore mai, eh?”
“Mi fa schifo il calcio. Si buttano a terra in continuazione.”
“E che ti piace, oltre agli scacchi?”
“Il tennis.”
“Giusto, un altro sport da fuori di testa. Va beh, chi ti piace di più Sampras o Agassi?”
“Agassi” rispondeva Niki, tutte le volte piazzando erroneamente l’accento sulla seconda a. L’aveva capito che il nome si pronunciava àgassi. Ma a Niki piaceva così. Del campione americano aveva le scarpe, la racchetta e il poster a grandezza naturale appeso sulla porta.
Sergio, sempre guidando e ascoltando gli U2, riprese a pensare. Non era da lui, si disse, ma lo fece lo stesso. Pensò che, anche se a volte era un padre distratto (“questo lo devi ammettere” si ripeteva a mò di mantra) Niki non era certo un tipo facile. Figurarsi per uno come lui, che a sedici anni scopava già con le ventenni, beveva superalcolici ed era pure riuscito a ficcarsi nel casinò di Montecarlo, spalleggiato dall’amico Tony Favola di ventisei anni. Roba da film. Mentre Niki si faceva solo le seghe, per quanto ne sapeva lui. In quell’attimo un’idea meschina si affacciò alla mente di Sergio: che suo figlio non fosse solo un segaiolo mezzo autistico, fissato con gli scacchi e con il tennis, poco propenso allo studio della passera e molto a quello della filosofia? Un indizio negativo? Niki leggeva tonnellate di libri.
Mentre Sergio si affannava nei pensieri, Niki cambiò disco, passando inspiegabilmente dagli U2 a un gruppo italiano semisconosciuto. Fu in quell’attimo di pausa che Sergio si perse. Il pensiero, pur non volendo, cadde inevitabilmente sulle tette fuoriserie della nuova segretaria, un decolletè a cinque stelle che stava facendo impazzire l’ufficio. Fu così che, in un attimo, Sergio azzerò qualunque pensiero profondo o noiosissima costruzione mentale che non includesse le tette di Jelena.
Arrivarono al circolo in perfetto orario. Nel breve tragitto che separava Niki dagli spogliatoi, il ragazzo guardò sempre per terra, vicino ai piedi calzati Nike (in onore della dea alata) camminando veloce e respirando a ritmo di training autogeno. D’un tratto si fermò e si ritrovò con le retine sparate su due piedi nudi e abbronzati. Uno smalto trasparente lo fece trasalire. Si sentiva già perso. Alzò gli occhi e vide la ragazza. Era mora, con due grandi occhi marroni sotto la fronte spaziosa. La crocchia le stava sulla testa così dolcemente che sembrava appoggiata. Indossava una magliettina bianca scollata e un gonnellino celeste di quelli leggeri. Niki notò il piccolo fiore fra i capelli. Non disse niente. Betta sembrava una ventottenne, a prima vista. Ma i sedicenni hanno un fiuto particolare per le età, non ci cascano. Così i due si “riconobbero”. Niki trattenne il respiro (come da manuale del training autogeno) e la fissò con aria inespressiva. Era il suo tentativo di non rivelarsi. Ma si dimenticò degli occhi, che le tenne addosso per un bel pezzo. Betta non si mosse.
“Tu devi essere Niki” disse la ragazza. Prima che Niki potesse rispondere lei allungò una mano e aggiunse “piacere, Betta.”
Niki disse “Niki” e in un millisecondo tornò alle sue scarpe, ma non prima di averla aggirata con un passo preciso e veloce. Percorrendo gli ultimi metri prima dello spogliatoio sentì la ragazza dire forte: “in bocca al lupo!”
Un “grazie” a bassa voce fu tutto quello che riuscì a dire.
Niki aprì la porta e si appoggiò al muro. Poteva rilassarsi, tanto non c’era nessuno. “Forse è la ragazza del mio avversario” si disse. Chiuse la porta e si riattaccò al muro. “Coglione non si dice grazie. Si dice crepi.”
Dopo un tempo indefinito tornò alla realtà. La partita stava per cominciare. Guardò l’ora. Aveva dieci minuti per presentarsi al campo. Si concentrò sulle cose da fare. Tirò fuori dalla borsa i vestiti, si tolse la tuta e si mise il completo da tennis. I calzini li lasciò per ultimi. Infilò le scarpe e le allacciò. Veloce, determinato. Poi scattò in aria e buttò fuori il fiato. Fece due passi e raggiunse lo specchio. Si bagnò i capelli e si legò la fascia. Si sgranchì il collo e sciolse le spalle. Era quasi ora di andare, fece comunque in tempo a guardare nello specchio e dirsi: “forza bello.” Visto da fuori appariva elegante e furente al tempo stesso, con i boccoli castani a dargli quel tocco principesco che dona tanto ai ragazzi della sua età.
Infine, il portafortuna: il polsino che gli aveva regalato sua madre un paio d’anni prima. Si trattava di un polsino bianco con una grande V verde. L’ aveva cucito lei stessa prima di andar via per sempre. La V era la lettera iniziale del suo nome.
Niki si trovò ancora e forse per la prima volta, dentro quello specchio: “anni di sacrifici. Inverni ghiacciati a correre dietro la cazzo di pallina gialla, ogni giorno. per cosa?” sibilò. Lo disse piano e deciso, con gli occhi un po’ sul polsino e un po’ sulla sua sagoma bianca. Poi, in silenzio, cominciò a saltellare. Spostava il peso da un piede all’altro come un pugile che si prepara a sferrare l’attacco decisivo. Nello spogliatoio c’era solo il suono della gomma sulle piastrelle, una musica dritta e risoluta che riempiva la stanza di un certo timore. Uno, due, centoventi salti.
Il sole era spatrito, così come Sergio. Anche la paura non c’era più. Antonio Mastu, invece, chiaccherava allegramente con la sua futura ex.