di Sergio Pastena
Premessa: da appassionato a tutto tondo di tennis molto spesso nella mia vita mi sono trovato a simpatizzare per i “figli di un Dio minore”, ovvero per quei tennisti provenienti quasi per caso da nazioni nelle quali non esiste un vero e proprio movimento. Questo da sempre, da quando avevo quindici anni e tifavo per il senegalese Yahiya Doumbia, capace di vincere a Bordeaux il secondo e ultimo titolo Atp a sette anni di distanza dal primo. Va da sé, quindi, il fatto che io oggi segua ancora questi tennisti di confine.
Ovvio quindi che il cipriota Baghdatis sia uno dei miei idoli e che io segua con interesse il divertentissimo “Dustin Brown from Jamaica”, uno che pratica un “suo sport che per puro caso ha le stesse regole del tennis” (citazione: lo ha scritto Federico Ferrero su Fabrice Santoro. Dustin non è certo al livello del maghetto, ma il suo tennis è altrettanto atipico). Seguo anche altri “casi”, come quello del lettone Gulbis, del bulgaro Dimitrov, ma anche del lituano Berankis, del turco-uzbeko Ilhan e dell’algerino Ouahab, anche se il loro tennis è meno affascinante di quello dei primi due che ho citato. Non mi spingo a tifare il lussemburghese Muller perché non risponde al minimo dei canoni estetici che deve rispettare un tennista per essermi simpatico. Non potevo quindi perdermi la favola di Aisam-Ul-Haq Qureshi, trentenne nato a Lahore, in Pakistan.
Un tennista mediorientale… se escludiamo dal mazzo l’India non se ne vedono molti. Una volta c’era il mitico Bahrami, iraniano che ancora oggi diverte tutto il mondo con le sue esibizioni, poi venne Mohammed Ghareeb, discreto tennista kuwaitiano con tre Futures in bacheca famoso soprattutto per i suoi exploit a Dubai, dove ha strappato un set a Simon e Berdych e, soprattutto, ha fatto soffrire contro ogni previsione sua maestà Federer nel 2006 (7-6 6-4 il punteggio finale). Poi è arrivato Qureshi, uno che in singolare è salito fino al numero 125 del mondo togliendosi discrete soddisfazioni (buoni risultati nei Challenger, quarti di finale a Newport e un turno passato a Wimbledon). Per un periodo l’avevo perso di vista e me lo ritrovo quest’anno a Johannesburg che vince il torneo di doppio con Bopanna, con cui fa coppia da anni. Ancora più di recente un altro exploit di rilievo: doppia finale negli Us Open, in doppio sempre con Bopanna e nel doppio misto in coppia con Kveta Peschke. Sulla sua strada, in finale, sempre Bob Bryan, che le ha vinte entrambe in coppia col fratello e con la Huber, ma non per questo l’impresa di Aisam ha meno valore, per tutta una serie di motivi.
(Aisam Qureshi e Rohan Bopanna)
Cominciamo dal fatto che Qureshi gioca bene: guardare lui e Bopanna in un match di doppio è una delle cose più divertenti che mi siano capitate da quando a Roma, nel 2008, vidi giocare assieme “Le Magicien” Fabrice Santoro e Richard Gasquet (sconfitta al terzo contro Nestor e Zimonjic, ma che piacere per gli occhi!). Tutti e due sanno giocare benissimo a rete, e questo spiega come riescano a competere con avversari di levatura tecnica superiore (il gioco di volo, nel doppio, ha un peso specifico decisamente maggiore che nel singolare). Ma non è solo quello. L’indo-pak express, come da tempo è soprannominato, ha fatto qualcosa di più. Chi conosce un po’ di storia saprà che la situazione di India e Pakistan è estremamente complessa: lo stato pakistano una volta era sotto la sovranità indiana, nel corso del secolo le due nazioni sono entrate più volte in guerra direttamente e, negli anni ’90, si è sviluppata una specie di “guerra fredda”, con una preoccupante corsa agli armamenti nucleari da parte di entrambi gli stati.
In questo contesto si inserisce la sfida di Qureshi e Bopanna: uno è musulmano, l’altro induista, uno parla l’urdu, l’altro l’hindi, un unico slogan che campeggia sul loro sito, “Stop War, Start Tennis”. E allora penso che sia proprio il caso di parlarne, di Aisam-Ul-Haq Qureshi e di Rohan Bopanna. In passato ho tifato tennisti tutt’altro che esaltanti per l’istintiva vicinanza al più debole che è tipica di molti appassionati, ma nel loro caso ci sono altri motivi per tifare: giocano bene, divertono e, soprattutto, ogni loro vittoria è un piccolo mattone in favore della causa della pace. E questo, senza falsi buonismi, mi sembra un motivo più che valido.
Per questo, anche se seguo principalmente il singolare, ogni settimana butto l’occhio ai tabelloni di doppio per vedere se loro ci sono e cosa hanno fatto…
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