Rafa torna a Manacor. Terapie, impegni istituzionali con sponsor e accademia, giri in barca nelle sue amate Baleari. Se c’è una cosa che negli anni allo spagnolo non è mai mancata è la capacità di saper accettare i momenti bui. Quando era piccolo, zio Toni gli diceva sempre: “Gli ace dell’avversario sono come la pioggia, non puoi farci nulla. Prima o poi, passano”. Nadal manda giù anche questo stop. Gli allenamenti riprendono, un passo dopo l’altro. Il piede fa male ma meno che ad agosto. Al rientro del torneo-esibizione di Abu Dhabi, come se non bastasse, anche la positività al maledetto Covid-19. Qualche giorno più tardi eccolo, il post su Instagram. Una foto sorridente sulla Rod Laver Arena accompagnata dalla frase: “Non ditelo a nessuno, sono qui”.
Nadal c’è… ma non si vede! Da qualche giorno tiene banco il caso Djokovic, un pastrocchio dove è quasi impossibile individuare colpevoli e innocenti. Si susseguono comunicati, visti concessi e revocati, una guerra tra fazioni che con lo sport a poco a che fare. E che fa male a tutti. Nel 2015 lo spagnolo aprì la stagione sul veloce di Doha, perdendo in tre set con il tedesco Michael Berrer. Da allora non ha più mancato alcun appuntamento con “la prima”, ripetendosi all’inizio del mese con il lituano Berankis. Se è vero, come è vero, che il termometro del gioco del maiorchino è la profondità del dritto allora non ci siamo. Comprensibile. Arrivano altre vittorie in due set: in semifinale con il finlandese Ruusuvuori e in finale con Maxime Cressy, una delle più belle sorprese di questi primi scampoli dell’anno. Sono 89, Rafa. Almeno uno in diciannove stagioni diverse. Uno in più di Roger Federer e Andre Agassi, fermi a diciotto. “Vincere è sempre speciale, qualunque sia il titolo. In fin dei conti è un altro tassello per il mio Curriculum Vitae”.
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