di Lorenzo Andreoli
Come quella di molti altri grandi campioni del nostro tennis, anche la storia di Floria Perfetti nasce in Emilia Romagna, sul muro di un magazzino in cui la piccola Flora colpiva palle per ore, tutti i giorni. La scelta di diventare una professionista, i primi tornei vinti, l’emozione di giocare alla pari con Gabriela Sabatini sul Centrale di Roma, i figli, la malattia e il futuro ambizioso. Ci ha raccontato tutto in questa piacevolissima intervista.
Dando uno sguardo alla tua carta d’identità si legge che sei nata a Faenza, in provincia di Ravenna. Fra i “big” attuali anche Sara Errani e Simone Bolelli vengono da quelle parti e prima di loro anche altri grandi campioni come Paolo Canè ed Omar Camporese. Si respira un’aria particolare per il tennis in Emilia Romagna?
“E’ vero, siamo tanti. Spesso accade che se in un determinato luogo nasce un campione, sin da giovani viene voglia di imitarlo e di farne un esempio per cercare di raggiungere i suoi risultai. Oltre ai grandi che hai citato non dimenticherei Raffaella Reggi, Francesca Bentivoglio, Gianluca Rinaldini e Andrea Gaudenzi, fra l’altro tutti e quattro faentini”.
Torniamo un po’ indietro nel tempo. Come nasce la Flora Perfetti tennista?
“Ho iniziato a giocare a tennis all’età di nove anni, colpendo palle tutto il giorno contro il muro di un magazzino, e mi piaceva tantissimo. Pian piano mio padre si è accorto di questa grande passione e ha deciso di iscrivermi alla scuola tennis di Faenza, allora diretta dal grande maestro Lassalle Errani. Lui puntò immediatamente su di me, cercando di farmi respirare l’aria agonistica, quella dei primi tornei”.
Hai capito subito che sarebbe stata quella la tua strada?
“Per parecchio tempo è stato solo divertimento, anche se un po’ particolare. Rinunce e sacrifici non mancavano mai, ma all’inizio non avevo voglia di fare programmi a lunga scadenza, come spesso si fa nel tennis di oggi. Solo intorno ai vent’anni ho iniziato a capire che sarebbe potuto diventare un vero e proprio lavoro e sono passata al professionismo. Ho vinto il mio primo torneo a Riccione, un 10.000 dollari, e conservo ancora un bellissimo ricordo di quella giornata. Fare del tennis la mia vita è stato un percorso lungo e a tratti complicato. Mi dissero che per fare il salto di qualità sarei dovuta andare via da Faenza, ma non ho mai pensato di lasciare la mia terra e la mia famiglia. Oggi riesco a riconoscere come questa scelta sia stata un grande limite del mio percorso”.
In oltre dieci anni da professionista hai vissuto numerose esperienze e giocato tantissimi incontri. C’è qualcosa che ti è rimasto dentro e che non dimenticherai mai?
“La prima, vera grande gioia è stata la vittoria del Campionato Italiano Under 16 a squadre, che disputammo a Castellammare di Stabia. Il punto decisivo lo conquistammo nel doppio io e la cugina di Andrea Gaudenzi. Poi sono arrivati i primi successi nei tornei da 10.000 e da 15.000 dollari, e soprattutto gli Internazionali d’Italia, dove giocai contro Gabriela Sabatini. Ahimè persi quella partita, ma sento che tornando indietro, magari con atteggiamenti diversi, avrei potuto lottare meglio e magari portare anche a casa una vittoria. Ricordo una sensazione quasi paralizzante nell’entrare sul Campo Centrale così gremito per affrontare l’allora numero 4 del mondo. Ero avanti 6-4 nel tie-break del secondo set. Poi sbagliai una volée facilissima sopra la rete. Oggi, ripensandoci, sorrido, ma l’amaro resta perché quella vittoria avrebbe potuto cambiare la mia vita”.
Qual è la giocatrice più forte che hai affrontato nella tua carriera?
“Senza dubbio Lindsay Davenport. Era il terzo turno degli Open di Australia del 1998. La Davenport, allora, era la numero 1 del mondo. Solida, completa, una vera campionessa”.
Nel 2000 hai giocato e vinto a Grado il tuo ultimo torneo. Avevi già in programma di smettere?
“Esattamente, un ITF da 25.000 dollari, dove fra le altre cose vinsi anche contro Flavia Pennetta. Avevo già comunque alle spalle oltre dieci anni di WTA, e sebbene stessi giocando molto bene e il fisico mi avrebbe dato modo di fare almeno altri due o tre anni ad alti livelli, la voglia di avere un bambino era troppo grande. Ero stanca, avevo viaggiato tantissimo e non me la sono sentita di proseguire. Sentivo il bisogno di fare la mamma in modo totalizzante”.
L’impatto con una nuova routine è stato brusco come lo immaginavi?
“No, perché alla fine non è stato un vero e proprio smettere. Prima della nascita del mio secondo figlio, Lorenzo, ho continuato a giocare parecchio, ovviamente lontano dal circuito internazionale, ma ad esempio la Serie A o parecchi tornei Open li ho disputati per altri sei o sette anni. L’idea di prendere la racchetta e appenderla al chiodo non mi ha mai nemmeno sfiorata. Anche oggi, in una fase della mia vita in cui sono sostanzialmente una madre a tempo pieno, insegno al circolo di Faenza e sono felice così”.
Pochi anni fa hai anche dovuto affrontare una brutta malattia. Che periodo è stato?
“Il più brutto della mia vita, senza dubbio. Sono cose che ti cambiano l’esistenza, che ti spingono a riflettere molto. Sono stata ferma un anno, in cui ho avuto la sensazione di non esistere più. La vita andava avanti ma facevo tutto meccanicamente, come un automa. Sapevo di dovere combattere ogni giorno. Per i miei figli, per me stessa, per tutti coloro che mi sono stati vicini. Volevo e dovevo uscirne. Fortunatamente tutto si è risolto nel migliore dei modi. Sono passati ormai quattro anni, adesso mi sento meglio e pian piano sto riprendendo le forze. Ora che i figli sono cresciuti, l’idea è quella di iniziare a seguire qualche ragazzo o ragazza che ha davvero voglia di provarci. Ho voglia di credere in qualcuno e provare a renderlo un professionista”.
Torniamo “sul campo”. C’è qualche tennista di oggi in cui ti rivedi o che ti piace particolarmente?
“Fra le italiane apprezzo molto Camila Giorgi, anche se non la conosco benissimo. Non riesco a paragonarmi con una giocatrice attuale perché il tennis, oggi, è molto diverso da venti anni fa. C’è una ragazza giovanissima, emiliana anche lei, Camilla Scala, che mi piace molto. Ha ventidue anni ed è 515 del mondo, ma ci crede tantissimo e ha voglia di migliorarsi giorno dopo giorno. Con questo lavoro e la giusta programmazione dei tornei da disputare si può togliere delle belle soddisfazioni. E’ davvero valida e tecnicamente molto completa. Il servizio va migliorato un po’. Vedremo”.
Nel tennis di ultima generazione è possibile dire che le doti umane di un buon coach sono importanti tanto quanto quelle tecniche?
“Assolutamente, forse anche di più. L’allenatore deve crederci più del ragazzo, deve caricarlo, spronarlo sempre, senza essere oppressivo. Dritto e rovescio non bastano. Le condizioni migliori per lavorare sono quelle che si raggiungono insieme: allenatore, giocatore e famiglia. Sempre e comunque per il bene del ragazzo”.
Oggi, grazie ai più disparati mezzi di comunicazione e social network, i tennisti di tutto il mondo ci mostrano in continuazione cosa fanno, dove sono e con chi sono. Quando eri ancora nel circuito era altrettanto facile coltivare amicizie e mantenerle?
“Non direi. Si giocava e basta. Era tutto meno pubblicizzato. Nel 1997 giocammo la Fed Cup in Indonesia, ma oltre a noi (Farina, Pizzichini e Lubiani) erano in pochi a saperlo. Si vendeva il prodotto in modo diverso e il mondo interattivo era molto meno sviluppato”.
In questa fase della tua vita cosa ti impegna a 360° e quali sono i progetti per il futuro?
“I figli sono sempre al primo posto, ma sto lavorando bene sul campo con molti ragazzi, voglio vederli crescere. Le ambizioni non mancano di certo! La Federazione si sta impegnando molto in questo, soprattutto negli ultimi anni. C’è però da dire una cosa. Il tennis è uno degli sport più costosi che ci sia, e troppo spesso la maggioranza delle risorse viene destinata solo a quei ragazzi in cui si intravede del talento già a partire dagli otto-nove anni, lasciando nel limbo chi ha tempi di esplosione diversi, magari un pochino più lenti. Alcune volte è un discorso di potenza e preparazione fisica, altre volte semplicemente mentale, ma non riesco a capire come si possa già smettere di credere in ragazzi che intorno ai quindici anni non hanno raggiunto chissà quali traguardi. Poco a tanti e non troppo a pochi, sarebbe questa la formula giusta per dare una smossa al movimento. Basta non smettere di lavorare mai”.
Grazie mille e in bocca al lupo per tutto!
“Ciao e buon tennis a tutti”!
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