di Alberto Cambieri
Heather Watson è riuscita a Monterrey ad aggiudicarsi il terzo torneo WTA in carriera dopo Osaka 2012 e Hobart 2015. E’ stata una settimana particolarmente incoraggiante sotto diversi punti di vista quella dell’inglese classe 1992: non solo è riuscita a vincere finalmente partite lottate (cosa che nella prima parte di questa stagione le è riuscita assai di rado), ma ha terminato il torneo sollevando un trofeo pur senza un coach che la accompagnasse durante lo svolgersi dell’evento messicano. Accompagnata solo dalla madre, al suo fianco per tutta la trasferta americana e alla quale non ha mancato di rivolgere gli auguri per la Festa della Mamma in occasione del discorso di premiazione, è stata protagonista di una settimana caratterizzata da una gestione quasi impeccabile dei match nonostante l’assenza di un coach di livello al suo fianco. Abbandonato Diego Veronelli, col quale era stata protagonista di un ritorno ad alti livelli (condito dal secondo titolo in carriera a Hobart nel 2015) dopo i problemi di mononucleosi che hanno caratterizzato il suo 2013 e la prima parte di 2014, è stata vista allenarsi spesso con Judy Murray, pur senza dichiararla come sua coach ufficiale. Si è presentata quindi formalmente senza coach al via del torneo americano, senza forse nemmeno troppe ambizioni visto l’inizio non esaltante di 2016: appena due vittorie a livello WTA (entrambe a Hobart, torneo in cui difendeva il titolo vinto l’anno precedente) a fronte di 3 sconfitte non rappresentano un ruolino di marcia invidiabile, nonostante si trattasse ancora dell’inizio di stagione. Le buone vittorie in Fed Cup nell’inferno dei gruppi zonali contro Simmonds e Shapatava non rappresentano successi indimenticabili e il match decisivo per la promozione perso contro la belga Van Uytvanck è l’ennesimo esempio di un incontro condotto per buona parte delle fasi decisive prima di sciogliersi però sul finale. Il ranking intorno all’80esima piazza con cui si è presentata al via a Monterrey è un’altra testimonianza delle difficoltà incontrate ad inizio 2016, ma ciò non ha evidentemente scalfito le sue certezze o ridimensionato le sue ambizioni.
In Messico ha così cominciato il torneo da unseeded uscendo vittoriosa da una dura lotta in tre set contro un’altra giocatrice che ha enormi problemi a chiudere i match, Misaki Doi, uscita sconfitta negli ultimi due Slam con match point sprecati sia contro Bencic agli Us Open sia contro Kerber (futura vincitrice) al primo turno in Australia quest’anno. Il secondo turno vinto con agio contro la non trascendentale ma mai banale Hercog è stato incoraggiante per quanto ha riguardato il proseguo del suo torneo: il match di quarti vinto in due lottati set contro la Wozniacki è stato senza dubbio il successo più “pesante” della sua settimana, in particolar modo se si considera il tipo di giocatrice affrontata. Sebbene sia da più di un anno che la Wozniacki, ormai precipitata fuori dalle prime 20 dopo 7 anni, non riesce ad esprimere un livello vicino a quello delle prime 10 tenniste del mondo, le due tenniste giocano un tennis abbastanza simile, basato sulla regolarità da fondocampo, su grandi corse e grande preparazione atletica ma su incertezze quando si tratta di andare avanti e concludere i punti con colpi vincenti, specialmente dal lato del diritto. In questo senso il match della Watson è stato esemplare, in quanto è riuscita a trovare il coraggio di prendere maggiori rischi quando si è trattato di disputare i punti che hanno maggiormente pesato nel corso del match, senza mostrare quelle incertezze che, ad oggi, le hanno impedito di fare quell’ulteriore salto di qualità per portarla tra almeno le prime 30 giocatrici del mondo (best ranking fermo in posizione numero 38). Il match di semifinali ha presentato meno insidie del previsto, in quanto un infortunio alla schiena ha notevolmente limitato la mobilità della Garcia, capace di sconfiggere la Watson nel corso dell’Hopman Cup a inizio anno. Particolarmente incoraggiante e significativo è stato, per tre motivi, il successo in finale contro la Flipkens: in primis si trattava di una giocatrice contro la quale la Watson era uscita sconfitta in entrambi i precedenti, in secondo luogo in quanto è avvenuta in rimonta, evento assai raro per quanto riguarda il 2016 della tennista inglese, infine poiché la tennista belga era stata capace nei quarti di finale di sconfiggere in tre set la Konta, neo numero uno del Regno Unito (spodestando proprio la Watson) dopo la splendida corsa verso le semifinali dell’Open d’Australia.
Nonostante l’assenza di un coach a sostenerla nel corso della complicata (a livello di tenniste affrontate) settimana messicana, la Watson ha mostrato un livello di gioco assai interessante (forse il migliore mai mostrato in modo continuo nel corso della sua carriera) e una tranquillità e pace interiore che riusciva a sprigionare in ogni situazione del match, anche quando si trovava sotto con il punteggio. Proprio da questa serenità, forse dovuta all’esplosione della Konta che le ha tolto un po’ di pressione di dosso da parte dei media inglesi o forse dall’assenza di un coach fisso che la seguisse giorno per giorno, torneo per torneo, può trovare la forza di affrontare senza patemi e ansie i vari tornei a cui prende parte. Se è vero che non è una giocatrice che ama troppo mostrare i propri sentimenti negativi (al contrario, è una delle giocatrici più apprezzate dalle colleghe, nonché più cordiali con tutti e sorridente non solo fuori dal campo), le sconfitte cocenti patite al termine di match combattutissimi in questo inizio di 2016 contro Larsson a Hobart (con però la scusante dei 6 set disputati nel giro di meno di 30 ore), Babos a Melbourne, Van Uytvanck in Fed Cup e McHale ad Acapulco non possono non essere state dovute anche ad una non impeccabile gestione dal punto di vista emotivo delle partite. Se riuscirà a gestire in modo ottimale le proprie emozioni, senza farsi prendere dalla paura di vincere o di attaccare e spingere quando il punteggio e la situazione lo richiedono, un posto nelle prime 30 non le è assolutamente precluso.