Durante il Challenger di Recanati abbiamo avuto modo di passare del tempo con Julian Ocleppo, non più solo figlio di papà Gianni, davisman anni 80, ma lui stesso giocatore PRO, attualmente numero 639 del mondo. Dotato di wild card in singolare ha tolto un set al finalista dell’edizione 2017 del Guzzini Challenger, il bosniaco Mirza Basic.
In doppio si è spinto fino alla finale, in coppia con Andrea Vavassori, poi persa con qualche rimpianto contro la coppia francese Halys/Eysseric. Abbiamo così potuto osservare con ammirazione i pregi di questo giovane azzurro, classe 1997. Non ha ancora vinto titoli in singolare, mentre in doppio ha già collezionato 3 vittorie a livello ITF. Il suo miglior risultato sono i quarti di finale al Challenger di Mestre, persi lottando contro il ceco Kolar, dopo aver eliminato nel derby Andrea Pellegrino e al secondo turno il turco Ilkel.
A livello tecnico il ragazzo è già molto avanti, serve molto bene, sapendo anche variare, ha nella risposta un’arma importante (che nel doppio ha usato assai bene), non ha particolari problemi da nessuno dei due lati, e a rete si difende. Sicuramente deve migliorare nella percentuale di prime di servizio, nelle scelte tattiche, e diventare più esplosivo nelle gambe facendo diventare anche la difesa un fattore per lui. Ciò che però più di tutto ci piace in questo ragazzo e ci fa ben sperare per il futuro è la sua allegria, la sua gioia di vivere e di giocare. Ha una grandissima personalità potenziale, uno show man, ed è materia prima da lavorare con molta sapienza.
Ora fa base al Match Ball Bra dei fratelli Puci, un luogo dove c’è tutto ciò che serve ad un tennista, ma fino a poco tempo fa ha vissuto a Tirrenia, dove ha sviluppato bene tutti i fondamentali e ha curato la parte fisica. Il suo coach accompagnatore è Dmitry Morolev, mentre il preparatore fisico è Mauro Atencio: entrambi due signori con una esperienza importante e grandi doti umane oltre che professionali. C’è un bel rapporto tra di loro, un bel feeling col ragazzo, si crea una bella atmosfera. Julian fuori dal campo è travolgente come simpatia ed energia, diciamo che se ad ogni torneo facesse ace per quante battute di spirito fa, arriverebbe presto nel main draw di Wimbledon, vincendolo. I coach faticano a contenerne l’esuberanza, che resta però sempre nei binari della goliardia e della correttezza. E’ un ragazzo spontaneo, ancora poco calcolatore, capace in campo come fuori di grandi giocate, grandi intuizioni.
Per usare una metafora culinaria Julian è come il pesce: lo chef deve stare attento a non rovinarne la preziosa carne, va saputo condire con ingredienti delicati. Snaturarne lo spirito significherebbe castrarlo, e in questo stanno le difficoltà che possono incontrare i suoi Maestri: da una parte pur essendo un cavallo di razza va assolutamente domato, va reso sicuro dei suoi automatismi, va indirizzato tatticamente e come strategie di gioco, dall’altra però è uno di quei talenti che deve sentirsi libero di scorrazzare nell’ampiezza delle opportunità del talento. Deve sentirsi libero di sbracciare quando vuole, e deve imparare a farselo andare principalmente quando la situazione tattica lo richiede. Questa è la sfida.
Ciao Julian, mi racconti la tua vita da ragazzino e come hai cominciato col tennis, visto che tuo papà Gianni è stato un grandissimo campione?
“I miei si sono separati quando avevo 5 o 6 anni, abitavamo a Montecarlo, un luogo meraviglioso per giocare a tennis, meno per crescere come ragazzino per vari motivi. Io e mio fratello Alex vedevamo papà principalmente nel week end, quando lui tornava dal lavoro. Avevamo i nonni paterni a Spotorno e quindi spesso stavamo lì. Per quanto riguarda il tennis mio papà era convinto che giocare con la mano sinistra mi avrebbe portato tanti vantaggi, e quindi insisteva su questo tasto. Faccio molte cose adesso con la sinistra ma non è il mio braccio dominante nel tennis. Ma la bilateralità in effetti è importante, mica aveva torto papà. A Montecarlo ho fatto l’asilo, poi fino alla terza elementare, tutto in francese, mi è servito perché ora lo parlo bene, non l’ho perso. Poi mia mamma è andata in America, e mio papà mi ha portato in Italia, non riteneva che crescere a Montecarlo fosse costruttivo. In effetti non lo è. Si perde un po’ il senso della realtà lì, belle macchine, ricchezza importante, se hai le basi tutto ok, ma se sei piccolino ti confronti solo con quel tipo di realtà e rischi di perdere il senso della misura. La vita vera è fatta dalla gente che la mattina va a lavorare, e deve mettere insieme il pranzo con la cena”.
I risultati sono arrivati subito, fin da Junior?
“Sai, io da piccolino giocavo 1 o 2 volte a settimana, facevo anche calcio a Monaco, mi è sempre piaciuta anche il gioco di squadra, la compagnia. Il primo Maestro oltre a papà ovviamente è stato Gigi Pirro, un sanremese trasferito a Montecarlo, ma da piccolo non ero un fenomeno. Giocavo bene ma fino agli U14 non ero tra i più forti”.
Ti ricordi la prima partita dopo la quale hai pensato di poter fare il professionista?
“Beh da U16 ho vinto il mio primo ETA ma non avevo le idee chiare di cosa fossi. Non mi facevo molte domande. Giocavo, e questo mi bastava anche se mi resi conto che diventavo bravino. Ma nulla di più”.
E il primo punto ATP cosa ha significato?
“Il primo punto ATP l’ho preso battendo Patracchini a Sassuolo, vincendo al terzo una partita durissima, dopo aver ricevuto una wild card, con Gabrio Castrichella che mi seguiva e lì c’era mio papà a vedermi. Lui soffre molto a guardarmi, a volte mi chiede di calmarmi, mi vorrebbe più freddo in campo. Con mio papà c’è un rapporto bellissimo, il tennis è solo una piccola parte del nostro rapporto che va molto al di là dell’aspetto sportivo. E’ un punto di riferimento”.
Obiettivi a medio termine e programmazione dei prossimi mesi?
“L’obiettivo primario è dimostrare costanza, sia di applicazione che di prestazione. Ciò fa la differenza a questo livello. Vincere più partite possibili ma ovviamente la vittoria è solo la conseguenza di un certo atteggiamento paziente e continuo. Per ottenere punti farò principalmente Futures, le 2 prossime settimane a Sharm, comunque cercheremo di giocare il più possibile sul veloce, che è la superficie dove mi posso esprimere meglio in modo naturale, e poi forse Como e Manerbio, due Challenger su terra”.
Come ti definiresti sul piano tennistico?
“Mi definirei aggressivo, cerco di far male con lo schema servizio-diritto, col rovescio sono comunque solido. Con Coach Morolev stiamo lavorando sui colpi per guadagnare la rete, giocare il più possibile dentro al campo per sfruttare le mie doti di attaccante.”
Hai amici nel circuito?
“Ho tanti amici, sono un ragazzo aperto. Tanti, a partire dal compagno di doppio di Recanati, Andrea Vavassori. Poi considera che con Pellegrino ho vissuto nella stessa camera a Tirrenia, quindi figurati quante risate o delusioni possiamo aver condiviso. Lo stare insieme, la condivisione ti fa diventare amico. Con Mirko Cutuli anche abbiamo passato tanti momenti insieme, e giocato molto anche in coppia”.
Dammi le tue percentuali di importanza dei quattro aspetti fondamentali del tennis.
“L’aspetto mentale è preponderante. Direi 55%. Tecnica, tattica e atletica faccio un 15% ognuno, quindi l’aspetto tennistico e sportivo sommato insieme è sempre meno dell’atteggiamento e della motivazione, della gestione delle emozioni che sono forse più decisive. Ovvio che il livello ce lo devi avere, una volta che ce l’hai allora conta come stai in campo, cosa riesci a dare”.
Quale è il torneo più brutto che hai giocato?
“Martos in Spagna, non so nemmeno definirtelo. Brutto non rende l’idea. Una via di mezzo tra squallido e triste. Provo a darti qualche spunto. Il circolo, se si può chiamare così era in mezzo al niente. L’hotel era minuscolo. Mediamente faceva 50 gradi, a volte 60 (sorride, esagera scherzando, è in trance agonistica, si sta divertendo tutto sommato a rispondere, lascia andare il “braccio” e dà il meglio di sé ndr), la palestra era minimalista, sembrava uscita da un film di 100 anni fa in qualche paese dell’est, non c’erano macchinari, niente. Era tutto lontano, inaccessibile, scomodo. Comunque è stata una esperienza, bisogna sapersi adattare”.
Chi sono i tuoi punti di riferimento tennistico, i preferiti?
“Nadal e Djokovic su tutti, non che mi ci rispecchi ma ne ammiro l’intensità che mettono in tutto ciò che fanno e la tenuta mentale”.
Non sappiamo dove possa arrivare questo ragazzo come classifica. Ma se mai dovesse entrare nell’elite del tennis, stiamo pur certi che non passerà inosservato per stile e personalità. Occorrono ragazzi di un certo spessore sul piano dello spettacolo, in un tennis avaro di grossi personaggi. Se ci pensiamo bene anche i top player di adesso pagano dazio ai campioni di qualche anno fa, che avevano personalità molto definite, tagliate con l’accetta. E parliamo di personalità ed atteggiamenti indipendenti dall’aspetto meramente legato al tennis. Facevano filosofia pura. Rispecchiavano la società e i personaggi che ognuno di noi incontrava al bar o al lavoro.
Se pensiamo a Nadal, sappiamo bene che è un gran lavoratore, ne apprezziamo gli sforzi fatti sin da bambino, ma chi può davvero rivedersi in lui? Ha debolezze? No. Può perdere, ma non si scalfisce la sua immagine. E sua maestà Roger? E’ Dio che ha voluto creare a sua immagine e somiglianza un tennista. Tutto qui. Semplicemente divino. Nessuno di noi lo è nel proprio lavoro. Djokovic: classe e perseveranza. Troppi aspetti positivi senza un contraltare, senza un rovescio della medaglia.
Pensiamo ai vecchi miti, potremmo parlarne per ore: da Arthur Ashe che ha vinto come dice lui stesso “in tornei di circoli dove per statuto i neri non potevano entrare” diventando prima un’icona della lotta contro l’apartheid, poi dei diritti dei malati di aids, lacerando l’anima degli USA e dividendo la società, fino a Bjorn Borg uno dei primi in assoluto a creare uno stile vincente legato alla difesa e alla continuità, con però il contraltare di una vita totalmente sbrindellata fuori dal campo. Passando per i vari Connors, che ha convinto metà degli Stati Uniti di rappresentare l’America proletaria pur essendo un miliardario, per John McEnroe che faceva ad un certo punto la faccia da schiaffi e la polemica in campo quasi per contratto, per Ivan Lendl che aveva questa espressione da giocatore di scacchi, lo sguardo perennemente torvo da cortina di ferro ed età indefinibile. Che dire di Agassi, uno che da Bollettieri che lo faceva svegliare alle 5 di mattina, si presentava al campo in jeans o vestito di rosa come provocazione, uno che si è dopato, che ha inventato un modello, che si è messo i capelli finti senza che nessuno se ne accorgesse. E Safin, con le “safinette”? E Chang che in mondovisione si mette a ricevere sulla riga di servizio, o serve da sotto, il primo a mangiare, ostentandole, le banane, interpretando il luogo comune dell’asiatico formichina lavoratrice? Nishikori oggi ha un po’ lo stesso stile di gioco rivisitato in salsa moderna, ma seppur in Giappone sia un mito, non resterà nella storia. Pensiamo anche al nostro Panatta, ne aveva di personalità, interpretava senza esserlo fino in fondo il romano un po’ indolente e piacione.Ma ne potremmo citare molti.
In sostanza ciò che vogliamo dire è che Julian Ocleppo ha qualcosa di questi grandi campioni, bisognerà vedere se ne avrà anche la forza e la voglia di emergere sul piano tennistico. E bisogna dire che oggi è anche molto più difficile perché i primi 500 del mondo giocano tutti benissimo e sono tutti grandi atleti, ma se ce la dovesse fare…