di Luca Brancher
La moria del 1973, il dominio belga, le cozze indigeste, il ragazzo che arrivava dalla campagna, le buoni sensazioni degli italiani. La storia, negli Slam maschili, dei lucky loser ha tante sfaccettature.
Il record di lucky loser. Il tutto si verificò per un motivo che, ne siamo certi, oggi non porterebbe ad una conseguenza così drastica. Il tennista jugoslavo Nikola, per tutti Niki, Pilic nel maggio del 1973 venne accusato dalla propria federazione di non aver voluto difendere i colori nazionali nel corso di un incontro di Coppa Davis, contro la Nuova Zelanda; Pilic negò di essere giunto a questo, ma per uno degli “Handsome Eight” – così vennero chiamati i primi otto giocatori ad aderire al circuito professionistico della WTC – erano in arrivi tempi duri. Non solo la sua federazione decise di squalificarlo, ma tale pena venne condivisa dai colleghi britannici, che lo esclusero di fatto da Wimbledon: la sanzione non fu subita passivamente dai colleghi, e amici, del tennista di origine croata, per cui quell’edizione della manifestazione sarebbe passata alla storia come quella del grande boicottaggio. Ci furono ben 50 ripescati o lucky loser per questo motivo, avvenimento che sancisce un record che difficilmente potrà mai essere eguagliato o battuto, una sorta di Isner-Mahut per quanto concerne i ripescati che solo e soltanto una motivazione straordinaria poteva far scaturire. Cinquanta ripescati, su 128 partecipanti, circa il 40%, che diede il là alla vittoria del ceco Jan Kodes sul sovietico Alex Metreveli, ma che soprattutto regalarono un’opportunità irripetibile a diversi parvenu: a spingersi più avanti, tra i 50, l’indiano Jaidip Mukerjea e il sudafricano Bernie Mitton, che raggiunsero il quarto turno. Un premio alla costanza per Mukerjea, che era al via del suo quindicesimo Wimbledon consecutivo e poteva così permettersi di eguagliare il suo migliore risultato, finendo sconfitto contro il futuro vincitore, non senza aver dato battaglia, mentre Mitton, che era di contro al suo primo Slam assoluto, venne ripescato addirittura dopo essere stato sconfitto al primo turno e poté regalarsi una settimana memorabile, anche grazie al successo al secondo turno contro il connazionale e compagno di Davis Deon Joubert.
La congiura belga. A livello di Slam, come potete ben immaginare, nessuno ha saputo fare meglio dei due del 1973, ma sono stati invece diversi quelli in grado di eguagliarli. Tre anni più tardi, al Roland Garros, spettò ad un belga di Verviers, Bernard Mignot (in foto): assurto agli onori della cronaca due anni prima perché primo tennista proveniente da quella nazione ad aggiudicarsi un titolo, Bernard, 28enne, sembrava essersi ormai messo alle spalle il periodo più brillante della sua carriera, tanto che, per vivere l’onore di calcare un campo del Grande Slam, era costretto a passare per le Forche Caudine delle qualificazioni. Perso all’ultimo turno di quali, in quell’anno, Mignot decise di restare comunque a Parigi per sostenere i suoi connazionali, rassicurato dal direttore del torneo sul fatto che difficilmente si sarebbe liberato un posto per un lucky loser: tutti i giocatori erano già arrivati a destinazione. Quello che accadde fa capire quanto contano i 40 anni passati in termini di professionismo. “A pranzo decisi di andare a mangiarmi una pizza da Pino, un ristorante in zona. Quando tornai indietro sentii dire il mio nome seguito da ‘Ultimo Appello’. Il neozelandese Brian Frairlie la sera prima aveva mangiato delle cozze e la digestione non era andata per il meglio: dovetti scendere così in campo contro Paolo Bertolucci e, nonostante la pizza, riuscii a vincere abbastanza agevolmente contro un ottimo tennista quale era l’italiano. Complice l’eliminazione prematura di John Newcombe, lo spiraglio in tabellone era interessante e, battendo per 6-0 al quinto sia il brasiliano Mandarino sia l’iberico Gisbert, raggiunsi la seconda settimana, dove ci capii poco contro il messicano Raul Ramirez. Se ho un bel ricordo di quel periodo? Sembrerà strano, ma tutt’altro. C’era un gran caldo, ogni sera andavo a dormire con un fortissimo mal di testa e si era creato uno strano rapporto coi gestori dell’hotel, poiché ogni giorno prenotavo una camera per il giorno successivo, visto che il mio progredire nel tabellone era inaspettato”. Se nemmeno un ottavo di finale insperato viene ricordato con completo piacere, non fa sorprendere che un anno dopo Bernard abbia deciso di appendere la racchetta al chiodo. Con un prodigioso spirito d’emulazione, anche nel 1977 e nel 1978 a Parigi due tennisti riuscirono a spingersi fino al round of 16, prima il tedesco Rolf Gehring e poi il ceco Stanislav Birner, padre e coach della futura pro Eva Birnerova.
David Goffin e Dick Norman. La parola lucky loser, però, si accompagna, a quanto ci è dato carpire, con la nazione belga in una maniera indissolubile, se è vero che il quarto e ultimo tennista a raggiungere gli ottavi a Parigi fu il belga David Goffin. Mano fatata, ma fisico leggero, il liegeois aveva fatto tanto fatica ad imporsi anche tra gli junior, e simile destino viveva nel mondo pro’. Come un fulmine a ciel sereno, nel maggio del 2012, Goffin accedeva al suo primo tabellone principale Slam da ripescato, dopo una sconfitta contro il portoghese Joao Sousa: in barba alle dicerie sull’esperienza, veniva a capo di due vecchie volpi come Radek Stepanek e Arnaud Clement nei primi due turni, sempre al quinto set, prima di regolare al terzo turno il polacco Lukasz Kubot, in maniera più agevole. Di fronte agli ottavi di finale si stagliava il suo idolo, quello che si trovava raffigurato nelle magliette che portava o nei poster in camera: Roger Federer. Tutt’altro che impaurito, David si portava avanti di un set, pur cedendo alla fine, ma facendo intravedere quelle qualità che in realtà sarebbero rimaste in incubatrice altri due anni, prima dell’esplosione del 2014. Goffin è stato l’ultimo e quarto giocatore a raggiungere gli ottavi da ripescato a Parigi, ma il terzo belga in assoluto a farlo in un torneo dello Slam: prima di lui, a Wimbledon, nel 1995, tale sorte capitò a quel lungagnone che risponde al nome di Dick Norman. Non serve intraprendere grandi viaggi nel passato per farsi tornare alla mente il tennista fiammingo, se è vero che fino ai 42 anni è stato in giro per il circuito a cercare di guadagnare punti e titoli nella categoria del doppio (N.B.: è anche il giocatore più vecchio in assoluto ad essersi guadagnato un titolo challenger, a 38 anni suonati), nonostante il fisico lo avesse tediato sin dalla tenera età, in particolar modo le ginocchia. Come detto, nel 1995, da 178esimo tennista al mondo, Dick si issò fino al quarto turno del torneo più prestigioso del mondo, venendo sconfitto dal futuro finalista Boris Becker, non dopo essersi tolto la soddisfazione di aver estromesso ben tre ex-campioni all’All England Club, due in singolo, Pat Cash e Stefan Edberg, e uno in doppio, Todd Woodbridge. “Semplicemente, mi ero reso conto che in quelle condizioni, avessi servito come sapevo, mi sarei potuto togliere svariati sfizi. Questo mi diede grande fiducia e mi permise di aggiudicarmi qualche scalpo eccellente.” Norman sarebbe stato lucky loser dieci anni più tardi, a Parigi, superando un turno ai danni di Lisnard e dando l’impressione di essere ormai al passo d’addio: in realtà, come abbiamo già detto, la sua carriera era poco oltre la metà.
Il ragazzo da Yarrawonga. Tra i due del 1973 e Dick Norman ci fu un altro tennista che si issò fino alla seconda settimana di Wimbledon, e la sua storia è l’ennesima riprova di quanto sia cambiato il tennis, e lo stia facendo in fretta, in questi decenni. John McCurdy, nativo di un paesino a 300 km da Melbourne, in aperta campagna, Yarrawonga, non era esattamente un predestinato di questo sport “Mio padre era il più forte tennista del mio paesino di 4.000 anime, ma morì quando io avevo 7 anni, e fu abbastanza casuale che io prendessi in mano la racchetta per la prima volta, tre anni più tardi. A Yarrawonga c’era sì un circolo, ma non maestri, per cui dovetti arrangiarmi come potevo. A 20 anni fui invitato a Melbourne per poter crescere in un contesto più sfidante, dato che ero nettamente il giocatore più forte della mia zona. Ebbi la possibilità di girare per il mondo, feci anche tre mesi alla Oklahoma City University, ma non riuscendo a impormi, decisi di tornare a casa: avevo solo 21 anni”. Si sostentava guidando un taxi oppure lavorando nel supermercato della città, e nel tempo libero si dedicava al Football Australiano, fino a quando, per recuperare una palla perduta, si fratturò il braccio destro. “Capì in quel momento che dovevo tornare al tennis”. Complici alcuni buoni risultati sull’erba australiana, John provò nuovamente ad affrontare un viaggio fuori continente, nella primavera europea: ad Amburgo e al Roland Garros si limitò al doppio (a Monaco e al Queen’s non riuscì nemmeno a giocare quello), a Roehampton provò con le qualificazioni al major su erba. “Al turno decisivo, contro Charlie Fancutt, ebbi un match point sulla mia racchetta, prima di perdere per 11-9 al quinto parziale.” Sembrava la fine, ma venne ripescato: il sorteggio fu con lui clemente tanto da affidargli tre giocatori poco avvezzi all’erba, tre latini come Juan Avendano, Claudio Panatta e Cassio Motta. Poco potrà contro Tim Mayotte, semifinalista l’anno prima, negli ottavi, ma fu un acuto abbastanza clamoroso, che rimase un fenomeno isolato, tanto che McCurdy, allora 23enne, giocò davvero poco, fino al ritiro giunto solo due anni più tardi.
Scontro tra lucky loser e italiani: meno fortunati sono stati i lucky loser sul cemento, dato che fino a due anni fa nessuno si era fregiato di un ottavo di finale né a Melbourne né a New York. Per riuscirci l’unico rimedio poteva essere costituito dall’incontro di due lucky loser al terzo turno, come appunto avvenne all’Australian Open del 2014 tra Martin Klizan e Stephane Robert, col secondo capace di oltrepassare questo valico apparentemente insuperabile. Down under a quel livello, prima dei due, erano giunti Amer Delic (2009) e Glenn Layendecker (1991, che fu sconfitto dal nostro Caratti), mentre a New York, ad oggi, sono tre i tennisti ad aver colto un terzo turno, due di questi italiani: oltre a Fernando Verdasco (2003), prima ce l’aveva fatta Laurence Tieleman (1999, nativo belga forse non a caso) e poi li emulò Flavio Cipolla nel 2008. Gli italiani hanno comunque un discreto feeling con il ripescaggio, basti pensare che dei cinque a quota 3 (record assoluto) due sono italiani (Diego Nargiso e Simone Bolelli, oltre a Frank Dancevic, Michiel Schapers e Eduardo Zuleta). E Simone ha sempre fatto fruttare i doni ricevuti dalla Dea Bendata se pensiamo ai due terzi turni a Wimbledon, e al secondo al Roland Garros. Altro italiano discretamente fortunato in questo ambito è stato Daniele Bracciali nell’estate del 2005, anche se dopo quello che capitò a Wimbledon si sollevò un gran polverone, sebbene non per colpa del tennista toscano.
L’affaire Gimelstob. Fino al 2005 il lucky loser veniva decretato in base alla classifica. Capitava, e non di rado, che la testa di serie numero 1, giunto all’ultimo turno di qualificazione e consapevole di essere già certo del ripescaggio per qualche forfait, si concedesse senza lottare al proprio avversario: quell’anno il tennista americano era sì numero 3 del seeding, ma Seppi e Clement. che lo precedevano nel novero delle teste di serie, erano stati fatti scendere in campo prima di lui ed erano ben avviati alla vittoria, per cui, essendo noto che qualche ritiro ci sarebbe stato (alla fine saranno 3) annunciò, anche allo stesso avversario, l’elvetico Bastl, che non sarebbe sceso in campo per l’ultimo turno di qualificazione, complice una schiena un po’ dolorante dopo l’incontro contro Voltchkov: da ricordare che il turno decisivo di qualificazione a Wimbledon è al meglio dei 5 set. Gli organizzatori fecero pressione affinché Justin scendesse in campo, dal momento che il precedente sarebbe stato poco sportivo, per quanto non sanzionabile, ma lo statunitense non volle lasciarsi convincere, per non precludersi le sue possibilità nel tabellone principale (arriverà poi al terzo turno), fino a quando si sentì dire “Disputa almeno un gioco e poi ritirati”. Così sarebbe stato, ma l’episodio non piacque molto al Board dei tornei del Grande Slam che decise che dall’anno seguente la regola sarebbe dovuta cambiare. Non più ripescaggio diretto per il meglio classificato, ma sorteggio tra i primi 4, e così a seguire. Un minimo di incertezza di più ci sarebbe potuta essere, e di conseguenza partite più combattute all’ultimo turno di qualificazione.
L’edizione 2016 del Roland Garros rispetto alla tradizione. Come si è evinto sopra, il Roland Garros è da sempre un torneo che aiuta i “fortunati” e questa stagione non è stata da meno, non tanto per il numero di ripescati, 4, quanto per quelli in grado di raggiungere il secondo turno, ben 3 (Adam Pavlasek, Igor Sijsling e Andrej Martin, che è andato anche oltre). Era la sesta volta che capitava a Parigi, dopo :
- 1975 (M. Ulrich, Neely, Robinson);
- 1976 (Mignot, R. Norberg, R. Simpson)
- 1978 (Birner, Marks, Pierola)
- 1982 (Hogstedt, Myburg, Ostoja, TIberti, Urpi)
- 2008 (Horna, Andujar e Decoud);
una era successa a Flushing Meadows:
- 1999 (Ljubicic, Mirnyi e Tieleman);
mai all’Australian Open e 5 volte a Wimbledon dopo il 1973, che è ovviamente fuori concorso
- 1981 (Johnstone, Leconte, Nystrom)
- 1991 (Laurendeau, Nargiso, Olhovskiy)
- 2004 (Benneteau, Pescosolido, Peya)
- 2009 (Alves, K. Beck, Cuevas)
- 2011 (Bolelli, Harrison, Zemlja)
Rispetto al numero totali di ripescati, ovvero 4, il Roland Garros 2016 non spicca se guardiamo che, dopo i 50 di Wimbledon 1973, abbiamo:
- 3 prove a quota 8 (WIM 1977, WIM 1981, RG 1982);
- 3 a 7 (RG 1981, RG 2008, WIM 2010);
- 5 a 6 (RG 1979, WIM 1980, WIM 1995, WIM 2000, RG 2011,);
9 a 5 (WIM 1969, RG 1976, WIM 1978, WIM 1991, WIM 2001, WIM 2003, WIM 2004, RG 2005, WIM 2011, WIM 2013).
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