di Luca Brancher
Durante lo scorso mese di agosto una voce, flebile ma insistente, si andava diffondendo sul circuito ATP, legata ad un ritiro, sul finire della stagione, di un giocatore che pur non avendo mai fatto effettivamente parte di quello che potremmo definire il Gotha del Tennis si era comunque distinto proponendo un tennis che, se in giornata, non sfigurava nemmeno di fronte ai migliori. Mikhail Youzhny sembrava infatti destinato ad un abbandono definitivo, a maggior ragione dopo aver perso il suo status di top-100 detenuto ininterrottamente per cento-settantaquattro (174) mesi, assurgendo a modello di longevità con dei picchi qualitativi spaventosi, Di esempi, lungo questo decennio e mezzo, ce ne sarebbero a bizzeffe, basti soltanto ricordare la sua semifinale allo U.S. Open del 2006, quando, nel giro di qualche ora, fu in grado di battere Rafa Nadal e poi i fratelli in Bryan in doppio, tre rappresentanti che, con i titoli Slam, nelle loro rispettive discipline, hanno (o avevano) una certa confidenza. Purtroppo, a cavallo di luglio e agosto, a culmine di un 2015 in cui non riusciva a ingranare, il buon Misha cadeva sotto i non apparentemente gestibili colpi di Bastian Trinker a Umago, di Pablo Carreno Busta a Gstaad (già teatro di una sua vittoria) e di Dusan Lajovic a Kitzbuhel, relegandolo ad un ruolo che, anche i suoi detrattori – a patto che possano esistere – faticavano a riconoscergli. E così, a farsi strada, era l’idea che a Mosca, l’autunno successivo, Youzhny avrebbe appeso la racchetta al chiodo, davanti al pubblico amico. Vero o falso che fosse, a quella fine eravamo destinati a prepararci.
Il problema, con un ragazzo poco avvezzo alla comunicazione e assolutamente allergico alle dichiarazioni come Youzhny, consiste nella facilità di incappare in clamorosi granchi, tanto che il parziale risveglio a cui abbiamo assistito durante l’Open canadese avrebbe dovuto mettere sull’attenti più di qualcuno – “io dovrei ritirarmi? Guardate qui, se vi pare il caso…” – ma era sul volgere del finale di stagione che siamo metaforicamente saltati sulla sedia quando il nostro si presentava al via di un torneo del circuito challenger, due settimane dopo il suo “ipotetico” addio moscovita, in quel di Eckental. Difficile pensare che qualcuno voglia smettere, se accetta di scendere di categoria per trovare quelle vittorie che, Montreal a parte, erano mancate in troppe occasioni. In Germania Mikhail centrava il successo, non solo parziale, ma lungo tutta la settimana, tornando ad un titolo a ventiquattro mesi dal suo ultimo hurrà, Valencia, e oltre quindici anni dopo il suo trionfo più recente su questi palcoscenici. Non contento provava a rifarsi anche a Bratislava e a Brescia, ma pagava dazio ad una stagione troppo sconnessa e senza un reale filo logico, oltre che ad un problema alla parte inferiore della schiena che gli causava il ritiro prematuro nel primo turno della competizione disputata nella Leonessa d’Italia. E il suo andarsene dalla Lombardia Orientale, quasi alla chetichella, a bordo della stessa automobile con cui era arrivato, faceva rimbalzare nella mente quella parola – “ritiro” – che per qualche settimana, la sua voglia di vincere, ci aveva fatto dimenticare.
Le incognite, gli interrogativi, le domande, le tante risposte mancanti che da sempre lo accompagnano: cosa avrebbe fatto l’allievo di Boris Sobkin (anche lì, un’assoluta mosca bianca per il fatto di non aver mai voluto cambiare allenatore) nell’anno 2016? Per quanto ci si potesse immaginare dati i pregressi, qualcosa di inatteso, difficilmente avremmo pensato di ritrovarci, a fine gennaio, a parlare di un tennista che, invece di recarsi in Australia, a tentare le qualificazioni per quello Slam che per 15 anni non aveva mancato, raggiungendo il quarto di finale nel 2008, ha deciso di tornare a cimentarsi nei challenger. Vincendoli. Una scelta che spiazza: era più logico, se la volontà di “dire addio” si fosse davvero fatta forte, regalarsi un ultimo tentativo Down Under, anche per rivedere quei vecchi giocatori con cui aveva condiviso tante battaglie in campo, oppure, se ancora provato da una stagione dalle troppe ombre e pochissime luci, rinviare il suo esordio, ma ripartire da Bangkok, tra tennisti in cerca di punti, e soprattutto di condizione per le qualificazioni del primo Slam stagionale, no, non era nemmeno quotabile.
Accettando la fatica nel primo torneo, dominando nel secondo – quando la vera concorrenza a questi livelli si era spostata in Australia – e sudando ogni pallina pure nel momento in cui, dopo la Thailandia, il circus secondario si era trasferito a Manila e Lukas Lacko era arrivato ad un punto dall’estrometterlo in semifinale. Respinto con perdite anche lui, Misha infilava la quindicesima vittoria consecutiva, timbrava il terzo cartellino della stagione e rispediva al mittente ogni possibile congettura sul suo futuro. Conferendo ai nostri occhi un’impressione positiva, con la classifica che decisamente sta riprendendo un forma più consona alle sue qualità: a questo punto ipotizzare il domani non è soltanto un esercizio privo di fondamento, ma una vera e propria forzatura, per quanto il disegno reale è noto solo a pochi.
Ed è meglio così: in una tennis in cui la parola sorpresa o underdog trova sempre meno spazio avere una variabile impazzita che esibisce le sue immancabili qualità fuori da ogni schema è una benedizione. Poterne goderne, anche in posti sperduti, nei giorni in cui le telecamere del tennis arrivano nei posti più sperduti, è un dono che pensiamo di esserci meritati.
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