di Giorgio Giosuè Perri
Il tempo è il compagno più prezioso ed il nemico più temibile dell’uomo. Nella vita, come nello sport, tutto corre veloce, tutto va da una parte all’altra senza mai fermarsi. Il tennis è strano, imprevedibile, mai banale. Ci si perde nella sua infinita bellezza, ci si culla della sua incredibile spettacolarità. Nel tennis si possono trovare storie più o meno serie, personaggi incredibili e campioni senza tempo. Ma siamo proprio sicuri che anche i mostri sacri siano esenti dalla lotta più difficile che ci sia? Quella contro i propri limiti, le proprie debolezze. Quella, appunto, contro le inesorabili lancette, che demarcano un tempo che non sarà mai più possibile rivivere, un tempo dolcemente complice di tutte le gioie e di tutti i dolori.
Ogni appassionato di tennis sa quanto sia importante l’attesa. Preparare un torneo del Grande Slam attraverso tanti piccoli accorgimenti è la chiave anche, e soprattutto, per chi in campo ci vive. Perché tra l’incontrastabile dominio di Novak Djokovic e la scarsa resa dell’unità inseguitrice, forse qualcuno si sta perdendo per strada. Forse quel qualcosa, o quel qualcuno, è Rafael Nadal. Il maiorchino ha vissuto un 2015 terribile, ha perso ogni primato, ha interrotto i record. Ha rischiato di uscire dai primi 10 giocatori del mondo, ha ceduto con le proprie armi anche sulla sua superficie preferita, perdendo più match in tre mesi che in cinque anni. Sono successe tante cose all’ex numero 1 del mondo, tutte insieme.
La sconfitta di questa notte contro Fernando Verdasco ha confermato tante cose, così come ne ha messe in luce altre. Lo spagnolo si è dimostrato più fragile, non solo mentalmente, ma anche fisicamente. Se per lunghi tratti della passata stagione ci si appellava alle problematiche mentali, da oggi si può tranquillamente dire che anche le componenti tecnico-tattiche non sono più quelle di un tempo, non sono più sufficienti contro i più forti. L’anno si era aperto con qualche successo di pregevole fattura a Doha, ma con dura lezione subita da Novak Djokovic in finale. Dagli Emirati Arabi a Melbourne è cambiato il rendimento di Nadal da fondo campo, soprattutto contro avversari rapidi e potenti come Verdasco. Ma forse, in un certo senso, questa partita aveva un significato ancora più diverso, forse andava al di là di qualsiasi logica.
La resa dei conti, la vendetta perfetta, la vittoria più bella. Verdasco, nel 2009, aveva sfiorato la finale agli Australian Open, giocando la miglior partita della sua carriera, tenendo Rafa sull’orlo del baratro per quasi cinque ore. Rispetto a quella partita è cambiato tutto, proprio tutto. Lo spagnolo, in sette anni, ha sperimentato la gioia di battere il maiorchino, prima sulla terra blu di Madrid e poi sul cemento lentissimo di Miami, ma anche il dolore di un fisico non sempre all’altezza e di una testa non proprio da Top 5. Ma ci sono quelle giornate, ci sono quei momenti di totale spensieratezza, di trance agonista che portano chiunque a compiere qualsiasi cosa. Ed è ecco che la vendetta non si presenta su un piatto freddo, ma su uno gelato. Basti pensare ai due dati statistici più imponenti della partita: i 91 vincenti di Verdasco, i 38 errori non forzati del numero 5 del mondo.
Rafa Nadal non perdeva al primo turno di uno Slam dal 2013, anno della sconfitta contro Steve Darcis al primo turno di Wimbledon. E’ facile immaginare, e pensare, che il maiorchino abbia sempre reagito alle sconfitte più imprevedibili togliendo fuori dal cilindro il suo miglior tennis. È il caso del 2010, anno successivo alla sconfitta contro Robin Soderling al Roland Garros, ma è anche il caso dello stesso 2013, in cui Rafa è stato in grado di ritornare numero uno del mondo e di vincere Parigi, Montreal, Cincinnati e Us Open nel giro di appena tre mesi. Ma il tempo passa, inesorabile.
La reazione del maiorchino a quella sconfitta fu brutale, in senso tirannico, ma le cose sono cambiate in maniera troppo repentina. Perché parliamo di due anni e mezzo fa, ma sembra quasi che quel Nadal sia un flebile ricordo, la copia sbiadita di se stesso. E allora cosa c’è da aspettarsi da un giocatore che, dopo 10 anni ai vertici, ha dimostrato di essere umano come tutti gli altri? Ha mostrato i segni dell’età e ha inevitabilmente finito per mostrarsi nudo, nella sua forma più naturale possibile. Si sa bene che esporsi troppo alla luce del sole, senza i vestiti addosso, può far male. Ma forse c’è qualcosa di più dietro alle difficoltà, forse c’è qualcosa di più dietro a sconfitte oramai sempre più consuete, forse c’è di più dietro l’armatura di guerriero che abbiamo sempre voluto imporre a Rafa da quando lo conosciamo.
Nadal entra in campo per vincere e lo farà fino all’ultimo quindici della sua carriera, perché non si può chiedere ad uno dei più grandi di questo gioco di mollare, di lasciare passare tutto senza dire una parola. Qualcosa deve cambiare, perché troppo spesso lo sport riflette nella maniera più pura e sincera possibile quello che c’è dentro l’animo di un cuore spezzato. Funziona così: il tennis dà, il tennis toglie. Ma Nadal merita un ultimo grande giro, magari a Parigi, magari già quest’anno.