di Francesco Calzetta
Per sapere cosa aspettarci dalla stagione 2016 del circuito ATP, e per continuare il nostro approfondimento sul tennis italiano, abbiamo intervistato Massimo Dell’Acqua, ex numero 148 ATP, ora tecnico nazionale presso la Arezzo Tennis Accademy. Nato a Como il 6 settembre 1979, ha iniziato a giocare a tennis all’età di 7 anni, e dopo poco ha realizzato il suo primo sogno, vincere il campionato italiano under 12. Da junior ha vinto diversi altri tornei del circuito giovanile FIT, ma da senior non ha confermato totalmente le attese, nonostante un servizio micidiale e un gioco potente e brillante, per i motivi che lui stesso ci dirà. Insieme a molto altro.
Ciao Massimo, cominciamo parlando della tua carriera da giocatore. Cosa ti ha impedito di raggiungere i livelli che ti eri prefissato da giovane?
“Ho iniziato a giocare molto giovane, e sin da subito il tennis per me, ragazzino venuto dal nulla della provincia comasca, ha rappresentato un grande sogno. Immaginavo di giocare al Palasport di Milano o al Forum di Assago, desideravo misurarmi nei campionati italiani, guardavo Edberg e Becker e mi ispiravo al loro tennis spettacolare fondato sull’efficacia del servizio. Quando poi sono diventato giocatore professionista, però, ho piano piano capito che per alimentarsi il mio sogno avrebbe avuto bisogno di sudore, fatica, e sacrifici, mentre io ero attaccato anche ad altri aspetti più spensierati della vita, e col senno di poi penso di non aver fatto tutto quello che potevo per portare in alto la mia carriera. Non mi sono gestito bene in quegli anni, e ben presto si è fatta strada in me l’idea di mollare. Ho tirato avanti qualche altra stagione dopo aver raggiunto il mio best ranking, perché il tennis era la cosa che sapevo fare meglio, e mi davo sempre un’altra chance di fare le cose seriamente, perché sapevo che lavorando potevo ottenere i miglioramenti che desideravo. Ma i sacrifici non facevano per me, e a 31 anni ho mollato davvero. Oggi che sono un maestro, però, quell’esperienza mi è molto utile, perché vedo nei giovani che alleno molte delle problematiche che ho affrontato io, e posso trasferire loro quello che ho imparato sulla mia pelle da giocatore”.
Quali sono le difficoltà che un ragazzo incontra quando si affaccia sul mondo del tennis professionistico?
“Il mondo del tennis non è facile, ed è impensabile che un ragazzo di neanche 18 anni lo possa affrontare con la maturità di un uomo, perciò è di fondamentale importanza che i giovani atleti siano assistiti nel modo migliore sia dal maestro che dalla famiglia, che crescano in un ambiente protetto e che li inizi ai veri valori dello sport, e non sempre, purtroppo, è così. Ai miei tempi, ma ritengo anche adesso, se a 17 anni non eri 200 del mondo eri considerato irrimediabilmente scarso, c’era troppa pressione sui ragazzi, spinti oltre le loro possibilità da genitori, o maestri, troppo spesso accecati dalla speranza di aver trovato il “cavallo giusto”. Questa mentalità, secondo me, non aiuta la crescita dei ragazzi, e li rende anche più insicuri come atleti professionisti. Bisognerebbe invece assecondare la loro crescita senza mettere loro eccessiva pressione, in modo tale che solo quelli che veramente se la sentono decidano di intraprendere la carriera professionistica che, lo ribadisco, è dura ed estremamente esigente, col fisico ma anche con la testa”.
Parliamo allora della tua Accademia. Come ce la presenteresti?
“La Arezzo Tennis Accademy nasce nel 2014, e oggi può contare sull’esperienza di tre maestri: il sottoscritto, ex giocatore professionista, Lorenzo Salvini e Nicola Valenti, di formazione accademica. Il nostro obiettivo è quello di fornire tutto il supporto necessario ai giovani atleti che vogliono misurarsi col mondo del tennis professionistico, dal perfezionamento delle loro capacità tecniche, alla preparazione atletica, fino all’aiuto psicologico, e al sostegno pratico quando si misurano con i primi tornei”.
Quanti iscritti avete? Quali sono le categorie di età rappresentate?
“Ad oggi lavoriamo con circa un trentina di ragazzi fra gli 11 e i 17 anni. Abbiamo avviato un progetto anche con ragazzi ancora più piccoli, che viene gestito, all’interno dell’Accademy, da un altro gruppo di maestri, con cui, naturalmente, c’è un’interazione continua”.
Quali sono le vostre metodologie di allenamento? E i principi a cui vi ispirate?
“Per quanto riguarda la preparazione atletica, le cose sono cambiate molto rispetto ai miei tempi. Allora si puntava soprattutto sulla resistenza, oggi anche gli allenamenti fisici sono mirati allo sviluppo delle qualità specifiche utili per il tennis. Da noi la preparazione atletica è responsabilità del preparatore FIT Tommaso Ensoli, che punta molto sulla ginnastica funzionale, per migliorare l’equilibrio degli atleti, il controllo del corpo e dei movimenti, l’esplosività e la mobilità delle articolazioni. Per quanto riguarda il perfezionamento tecnico, abbiamo una metodologia generale di allenamento che si orienta alle linee guida della federazione, ma il nostro principio ispiratore è quello di non essere troppo invasivi rispetto all’indole del giocatore, che viene studiata e quindi incoraggiata con allenamenti e consigli mirati. Per questo ogni atleta del gruppo dell’agonistica ha una scheda personalizzata redatta da noi maestri, dove sono segnalati i punti da tenere sotto controllo nella sua crescita. Ciò vale anche per l’aspetto psicologico”.
Spiegaci meglio…
“Come dicevo prima, i nostri giocatori sono prima di tutto degli adolescenti, con problematiche che esulano dal tennis e che un maestro non può affrontare da solo, ma non può neanche ignorare. Per questo ci avvaliamo della collaborazione di uno psicologo, che ci aiuta a conoscere i ragazzi e a capire come trattarli. Soprattutto in questo delicato campo cerchiamo di essere il più comprensivi possibile con i ragazzi, iniziamo a spiegar loro che la vita dell’atleta è fatta di sacrifici, disciplina e serietà, ma non imponiamo loro niente, dal punto di vista alimentare, ad esempio, o di condotta di vita, perché riteniamo più sano che apprendano questi aspetti per gradi, e vogliamo evitare che le troppe imposizioni ottengano l’effetto contrario, spingendo i ragazzi a mollare”.
Quali sono gli obiettivi che ponete ai ragazzi? Quelli dell’Accademia? E, infine, quali sono i tuoi obiettivi a livello personale?
“I nostri ragazzi dell’agonistica partecipano ai tornei del circuito giovanile FIT, e devo dire che soprattutto le ragazze stanno ottenendo ottimi risultati, con la vittoria in un paio di tappe della macro area del Centro Italia, e il raggiungimento di diverse finali. L’attività dei tornei, comunque, deve conciliarsi anche con la scuola, che tutti i nostri ragazzi ancora frequentano, perciò è piuttosto limitata rispetto alle loro vere possibilità. Quando avranno finito le scuole, se vorranno, potranno cominciare a misurarsi con i tornei del circuito ITF, e, se sarà il caso, l’Accademia fornirà loro il supporto necessario. Per quanto riguarda l’Accademia, invece, il nostro obiettivo è quello di un ampliamento della struttura, che ci consenta di accogliere anche bambini più piccoli, che possiamo strutturare sin dalla fase del primo apprendimento del gioco. In futuro, non ci dispiacerebbe neanche stabilire una partnership con altre realtà, magari straniere. Il mondo del tennis è pieno di gente che lavora con passione, e il confronto con altri maestri è fondamentale per la crescita delle metodologie di allenamento, ma anche stimolate e divertente in sé e per sé. Per quanto riguarda me, infine, non mi dispiacerebbe lavorare a tempo pieno come coach di un giocatore, magari scoperto qui nell’Accademia, specie di una giocatrice, perché le donne sono più capaci degli uomini di fidarsi, ti seguono di più, e lavorare con loro spesso è più proficuo. Questa, almeno, è stata la mia esperienza finora. Per il momento, però, tutte le mie energie sono rivolte alla crescita dell’Accademia”.
Passiamo al tennis che si gioca alle luci della ribalta: chi vince l’Australian Open?
“Djokovic è una “bestia”, in questo momento della carriera vince le partite già nel tunnel contro chiunque, sarà difficile arginarlo nel suo torneo preferito”.
Federer ha interrotto il suo rapporto con Edberg, che tanto gli ha giovato negli ultimi due anni, e ha accolto nel suo staff Ljubicic. Cosa ne pensi? E cosa pensi dell’importanza del coach per un giocatore di livello mondiale?
“Io credo che a quel livello un giocatore abbia bisogno di un ambiente sano, che gli dia fiducia e gli permetta di gestire lo stress dei tornei, più che di una vera e propria guida tecnica, anche perché a uno come Federer che gli devi insegnare? L’allenatore ha una funzione di supporto, può dare consigli all’atleta e aiutarlo a focalizzarsi su piccoli aspetti del gioco, ma poi è sempre il giocatore che deve riuscire a mettere la sua qualità in campo per vincere la partita, quindi l’importante è che sia sereno e fiducioso. Ivan è molto furbo tatticamente (Massimo lo ha affrontato diverse volte in carriera, sia in singolo che in doppio, compresa una volta, nel 2009, a Dubai, quando l’allora numero 3 del mondo ebbe bisogno del terzo set per avere ragione del nostro interlocutore, n.d.r.), in carriera ha battuto più volte sia Roger che i suoi principali rivali di oggi, e sono convinto che la sua visione molto lucida del gioco può sicuramente aiutare Federer, in particolare nell’affrontare Djokovic, che l’anno scorso si è dimostrato un ostacolo insormontabile. Credo, ad esempio, che la collaborazione con Ljubicic possa portare Roger a migliorare ancora gli schemi del servizio”.
E di Nadal che ne pensi? Tornerà ai suoi livelli nonostante gli infortuni? Può tornare a vincere il Roland Garros?
“Tornare da un infortunio è un’esperienza diversa per ogni tennista, il modo in cui la affronti dipenda dal tuo carattere. Ad alcuni l’idea del riscatto dà una spinta ancora maggiore, ad altri il dolore o l’inattività prolungata possono generare titubanze che all’inizio sembrano impossibili da mettere alle spalle. Per quanto riguarda Nadal, non è semplice per lui tornare a grandissimo livello, perché la sua forza è sempre stata dovuta a uno strapotere fisico che è difficile rigenerare in poco tempo, lo spagnolo deve lavorare di più di un collega magari più talentuoso, inoltre la sua carriera è già stata abbastanza dispendiosa. Il lavoro però è sempre stato la sua forza, quindi ho fiducia che possa tornare, anche perché nel tennis basta un episodio, una vittoria, e le sensazioni cambiano completamente e la testa torna a pensare positivo. Non escludo che Nadal possa tornare a vincere il Roland Garros già da quest’anno, dipende da quanto peso riesce a dare alla sua palla, se si mette solo in difesa a soffrire è dura, ma se ricrea buone spinte e ritrova la complessità di palla che lo ha reso famoso, può ancora far male a tutti”.
A proposito di questo, chi vedi come possibile vincitore di Slam al di fuori dei soliti noti? Cosa fa la differenza fra un ottimo giocatore, anche un top 10, e un vincitore di Slam?
“In questo momento è difficile inserirsi nella lotta al vertice, ma l’esempio di uno come Marin Cilic dimostra che se si incastrano tutti i presupposti giusti, anche un outsider può vincere uno Slam. La vita all’interno di un torneo è appesa a equilibri sottilissimi, sicuramente c’è bisogno di un po’ di fortuna, di un tabellone favorevole, della sinergia di vari elementi che alla fine portano l’atleta a giocare al massimo della fiducia. Superate le prime due partite, le più difficili, ogni tennista sente che tutto è possibile, e se si incastrano quegli elementi di cui sopra, fortuna, forma, tabellone, fiducia, si creano i presupposti per l’impresa”.
Impresa che un giorno riuscirà a Fognini?
“Fabio (che Massimo ha battuto, nel 2008, sull’erba di Hertogenbosh, n.d.r.) è migliorato tantissimo negli anni, devo ammettere che mi ha sorpreso, e credo che sia pronto per il risultato eclatante, ma tutto dipende dalla sua maturità. Tecnicamente non sono d’accordo con chi sostiene che il suo gioco di gambe sia troppo pigro, e che lo limiti, secondo me quello è il suo stile, e nonostante a volte non si pieghi troppo, riesce a generare una pesantezza e una velocità di palla che in pochi hanno. I suoi successi dipendono dalla maturità che riuscirà a raggiungere in questa fase della carriera, dalla solidità mentale e dalla fiducia che può acquisire, perché dal punto di vista tecnico, per me, è pronto per un grande successo”.
Restando agli italiani, chi ti piace di più fra i giovani?
“Matteo Donati è un bel giocatore, ha talento, è estroso, e ha un buon timing sulla palla”.
E Marco Cecchinato?
“Anche lui mi piace, e secondo me non c’è una strada maestra da seguire, ma dipende dagli obiettivi che uno si pone, anzi, un percorso lento spesso è il migliore. Oggi si ha l’idea che i giovani debbano misurarsi subito nei tornei Atp, ma così rischiano di bruciarsi secondo me, mentre un ragazzo che si costruisce con calma, ponendosi come obiettivo piccoli miglioramenti, è quello che poi all’improvviso fa due o tre risultati e si ritrova 30 del mondo. Con alle spalle un percorso serio e che gli dà fiducia e forza mentale”.
E’ davvero così gretta la mentalità del tennis italiano? Non è che è per questo che i grandi giocatori scarseggiano?
“Questo onestamente non sta a me dirlo, credo però che in generale le troppe pressioni non facciano bene ai ragazzi, e quindi non aiutino a crescere tennisti maturi. Ricordo, ad esempio, che quando ero junior ero molto colpito dalla serenità e dalla goliardia dei miei coetanei australiani, che mi sembravano anche molto uniti fra loro, mentre noi italiani stavamo ognuno per i fatti suoi. Credo che alla fine la nostra mentalità di arrivare al risultato attraverso la strada più breve generi un’eccessiva competitività anche fra i giovani, che troppo presto arrivano a non vivere bene quello che, specie all’inizio, non è che un gioco meraviglioso da fare fra amici”.