di Sergio Pastena
Gliel’avessero detto nel 2012, i belgi mica ci avrebbero creduto. Loro, piccola nazione nella quale il concetto di sport era rappresentato essenzialmente dal ciclismo, specie parlando di vittorie. Una costante nei decenni, con la punta di Merckx e poco altro dagli altri sport, eccezion fatta per la fortissima nazionale di calcio degli anni ’80. Gliel’avessero detto, dopo le tre striminzite medaglie arrivati dall’Olimpiade londinese, nessuno ci avrebbe creduto.
E ora invece il Belgio è lì, in cima al ranking mondiale del calcio e reduce da un 3-1 all’Italia. Un ranking molto discutibile, per carità, ma la forza dei diavoli rossi è invece difficile da discutere. E ancora: nazionali di basket e pallavolo al top dei risultati degli ultimi 30 anni e, per finire, il tennis. Quel tennis che dopo i ritiri di Malisse e Olly Rochus sembrava destinato a un bel periodo di anonimato. Prima che venisse fuori un Goffin a collezionare risultati individuali e a dare compattezza a un team di Davis ora temibile al punto che è arrivato in finale di Davis.
Belgio – Gran Bretagna, la stessa finale del 1904. La prima e unica (persa malamente) per i belgi, una consuetudine all’epoca per i britannici, che però quel trofeo non lo vedono da quasi 80 anni.
A guardare il cammino delle due squadre, si notano profonde differenze. Il Belgio ha fatto fuori i detentori della Svizzera, il Canada e l’Argentina. Formazioni rispettabilissime, ma scese tutte in campo senza i migliori e affrontate tutte in casa. La Gran Bretagna, invece, pur giocando anche lei sempre in casa ha eliminato Usa, Francia e Australia che certo non erano scese in campo con le seconde linee. E tra battere Isner, Tsonga e Tomic e battere Lammer, Dancevic e Schwartzman, con tutto il rispetto, ci passa un abisso.
Eppure proprio la vittoria britannica sarebbe il passo definitivo necessario a snaturare una competizione che ormai, da tempo, non è più a squadre. Qualche occhio ai dati aiuta a capirlo: l’83% dei punti fatti dalla Gran Bretagna da quando è tornata nel World Group vedono il contributo di Andy Murray, in singolare o in doppio. Una percentuale, tanto per dire, superiore persino a quella del Giappone di Nishikori. L’unica nazione dove il giocatore più forte si avvicina a certe cifre è la Repubblica Ceca, dove 7 punti su 10 recano la firma di Berdych. Con un piccolo dettaglio, però: il contributo di Stepanek a un doppio praticamente invincibile è sicuramente maggiore di quello che può dare il compagno di turno di Murray ad un doppio britannico.
Escludendo una vittoria di Evans a partita già decisa, gli unici due punti pesanti arrivati dal secondo singolarista britannico sono corrispondenti ad altrettante epifanie tennistiche da parte di James Ward, capace di battere Querrey ed Isner guadagnandosi il titolo di incubo degli americani. Imprese apprezzabilissime, per carità, ma un po’ poco nel complesso. A rafforzare l’idea di un team britannico assolutamente non competitivo basta il bilancio delle sfide di Group I e II giocate dal 2010: al netto dei risultati di Murray, gli altri vantano un 16-18 nel quale, però, sono incluse le vittorie contro Kiss, i due Balazs, Bram, Vermeer, Ghorbel, Hamza, Zorlu e Tuna Altuna, che più che un tennista ricorda uno slogan pubblicitario per una marca di scatolette. Contro avversari più consistenti i vari Ward, Evans, Goodall e Baker esibiscono un imbarazzante 28% di vittorie.
E ci sono buone probabilità che alzino la Davis.
Cose britanniche, come si suol dire. Cose di uno sport che, escludendo i “nati fuori” (che sono tanti) fa sempre presa maggiormente in un upper class che ha la combattività di Giobbe (il profeta) e la capacità di far sorridere gli avversari di Giobbe (Covatta). Cose di una nazione che sa di vincere con uno che non più tardi di qualche mese fa faceva il tifo per l’indipendenza scozzese ma che, finchè il convento quello passa, evidentemente va più che bene anche ai cittadini “british inside”. In verità un candidato a cambiare le cose e a dare un peso “umano” al contributo del resto della squadra c’è, e risponde al nome di Kyle Edmund: vent’anni da poco compiuti, originario di Johannesburg ma cresciuto in Gran Bretagna dall’età di tre anni, è il principale candidato al ruolo di “next big thing” del tennis inglese. In finale sarà il secondo singolarista e chissà, visto che il potenziale c’è qualche chance potrebbe anche avercela se la giornata è quella giusta. Insomma, un candidato eroe, anche se un suo contributo alla vittoria britannica non cambierebbe la sostanza: se vinceranno gli inglesi, Murray avrà quasi vinto da solo.
Ma in fondo è normale: la Davis negli ultimi anni sembra essere diventata un affare privato di grandi campioni che vogliono mettere a curriculum un trofeo che gli manca, così tanto per avercelo. Tutto con una parabola decrescente in termini di qualità delle squadre: dalla fortissima Spagna alle molto competitive Repubblica Ceca e Serbia, passando per una Svizzera che due ne aveva e con quei due ha vinto. La Gran Bretagna sarà la prima a prendere l’insalatiera con un “one man show”? Può essere, con la consolazione che non sarà possibile scavare ulteriormente perché almeno uno bravo devi avercelo.
E con tanti saluti a un’Argentina sempre tra le più forti e sempre a quota zero.
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